Andy Diaz: «A Cuba dopo Castro è persino peggio, più miseria, più limitazione. Quale popolo, non va niente al popolo»

A La Stampa. Nel 2021 a Tokyo scappò per diventare italiano. Oggi è ai Mondiali di atletica. «Volevo essere italiano non fare l'esule cubano, ora mi accorgo quando la pasta è scotta».

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Italy's Andy Diaz Hernandez competes during the men triple jump final of the European Athletics Indoor Championships at Omnisport in Apeldoorn on March 8, 2025. JOHN THYS / AFP

Andy Diaz campione europeo e mondiale indoor di salto triplo, bronzo ai Giochi di Parigi, atterra oggi a Tokyo nella città da cui è partito cubano agli ultimi Giochi e ci torna da azzurro per il Mondiale: «Non ho nessuna nostalgia o domanda, me ne sono andato senza la fiducia del posto dove sono nato, mi ripresento sostenuto da persone che credono in me. Con una gara in sospeso». La Stampa lo ha intervistato

Quando si è mosso da L’Avana aveva già un piano?
«Le Olimpiadi, non pensavo ad altro. L’idea di mollare ogni persona che conoscessi non mi ha sfiorato. Ma al Villaggio mi sentivo un alieno: nulla era come sarebbe dovuto. Ricevevo direttive invece di appoggio. A Cuba funziona così. Per le qualificazioni, sono entrato nella pista di riscaldamento. Alla seconda corsa ho guardato il cielo. Basta».

Così? Di colpo?
«Sì, ho detto che avevo dei problemi, non riuscivo a saltare, poi mi sono convinto e ci ho rimuginato su. La parte più difficile è stata l’imbarco sul volo: un conto è prendere la decisione, un altro è agire». (…) Non volevo fare l’esule cubano, volevo essere italiano».

Che cosa vuol dire «fare l’esule cubano»?
«Altri atleti hanno lasciato il Paese per trasferirsi in comunità cubane all’estero, allenati da tecnici cubani. Io ho bussato a Fabrizio Donato ed è un privilegio tornare a Tokyo sostenuto da lui e da una squadra e dal tifo che crede in me. (…) Non ho un carattere così cubano. Ho smesso di ragionare in spagnolo, la costruzione delle frasi segue la mia quotidianità, le nuove abitudini. Prima non sapevo quando la pasta era scotta, ora mi basta guardarla, una banalità, ma ce ne sono milioni e mi ridefiniscono».

Non sarà la rivalità con gli altri ex cubani Pichardo, oggi portoghese e Diaz, lo spagnolo, che l’ha tenuta distante?
«So che ci chiamano nemici, facciamo il verso alle voci, è una parte. Ci scambiamo le occhiate dure durante la sfida, poi a posto. Io mi faccio vedere spavaldo e non metto mai i tape sui muscoli, perché dovrei dichiarare i punti di debolezza? Poi scommetto. Loro concentrati e io passo e butto lì “se vi sto davanti mi pagate la birra”. Mi piace. Ora Pichardo ha un club italiano. Mi imita un po’ dai, ma sempre dentro un giro cubano. Io sono l’unico che ha cambiato scuola, approccio, esistenza, modo di praticare lo sport. Tutto. Loro lasciano il Paese però si tengono il sistema in cui sono cresciuti».

Andy Diaz e il messaggio agli atleti cubani

Non le manca nulla della vita di prima?
«La famiglia, nonna, papà cugini… Eravamo abituati a stare sempre insieme, la casa a Cuba è un passaggio di parenti anche se mia madre ora sta in Italia e mi seguirà a Tokyo».

Tornerà a Cuba?
«Sì, prima o poi, è normale: nessuno dimentica da dove viene. Mamma mi aggiorna su ciò che succede là».

Che cosa succede?
«È sempre peggio, quando abbiamo iniziato a pensare che dopo Castro ci sarebbero state delle aperture è andata pure peggio, più limitazioni, più controllo, più miseria. Parlano di popolo, ma nulla va al popolo, anzi si toglie: il governo entra nelle decisioni private».

A un giovane consiglierebbe di lasciare il Paese?
«No. Niente suggerimenti, è una questione personale e colossale. Agli atleti però dico: lì non potete costruire nessuna carriera».

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