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Napoli vince col lavoro e la programmazione, lo scudetto che annienta i luoghi comuni

Altro che genio e sregolatezza o improvvisazione. De Laurentiis è l’architetto politico, Spalletti e Giuntoli due fuoriclasse che non smettono mai di aggiornarsi

Napoli vince col lavoro e la programmazione, lo scudetto che annienta i luoghi comuni
Db Udine 04/05/2023 - campionato di calcio serie A / Udinese-Napoli / foto Daniele Buffa/Image Sport nella foto: esultanza gol Victor Osimhen

Ha vinto Napoli. Ha stravinto. Ha vinto lo scudetto, il terzo della sua storia. Il gol decisivo lo ha segnato il suo calciatore simbolo: Victor Osimhen che ha pareggiato una partita che stava cominciando a somigliare a una maledizione.

Il Napoli ha vinto lo scudetto a Udine proprio laddove ci fu il primo squillo in Serie A del Napoli di De Laurentiis. Correva l’anno 2007, era il 2 settembre, seconda giornata di campionato. Alla prima la squadra (neopromossa) perse in casa col Cagliari e montarono le polemiche contro la campagna acquisti e gli sconosciuti Lavezzi e Hamsik. Una settimana dopo, gli azzurri di Reja vinsero 5-0 a Udine. De Laurentiis andò in tv, a Sky, ad attaccare «i grandi soloni, tra cui ce n’è qualcuno anche di Sky, che avevano dato cinque e mezzo agli acquisti. Costa molto poco aprire bocca, soprattutto quando uno non mette mano al proprio portafogli». Ne seguì un battibecco con Ilaria D’Amico e reazione del presidente («Non si parla a vanvera prima di iniziare il campionato») che si tolse l’auricolare e se ne andò. Fu un efficace compendio di quel che sarebbe accaduto nei successivi quindici anni.

Il Napoli ha vinto il campionato con cinque giornate d’anticipo. E lo ha vinto dopo averlo stradominato. Spazzando via tutti i luoghi comuni che da sempre perseguitano e assillano questa città. Anzi seguendo il canovaccio degli stereotipi, quella del Napoli è una vittoria nordica, milanese. È la vittoria della programmazione. Non c’è un briciolo di improvvisazione. Né di genio e sregolatezza. Stavolta non c’è il calciatore più forte del mondo. Ma una squadra e una società che sono diventate grandi insieme e sono cresciute anno dopo anno.

È lo scudetto della diversità rispetto alla ripetitiva narrazione napoletana. Non c’è nulla di estemporaneo in questo successo. C’è il lavoro, tanto. Tantissimo. Altro che nullafacenti. C’è il sudore. C’è il sacrificio in campo di Spalletti e dei suoi calciatori che ci hanno creduto sin dal primo giorno, quel Ferragosto in cui vinsero a Verona. E hanno lottato per tutto l’anno su ogni pallone come se fosse l’ultimo. Come se da quel pallone dipendessero le sorti di una stagione intera. Spalletti ha lavorato in maniera meticolosa su due piani. Innanzitutto sul piano della costruzione del gruppo. E della motivazione. E ha cominciato indovinando la scelta del capitano: Giovanni Di Lorenzo calciatore e volto simbolo del Napoli. Lo ha scelto ma ha lasciato che fosse votato dai calciatori. E poi sul piano tattico, lavorando instancabilmente alla creazione di nuove soluzioni di gioco. Ha saputo essere allo stesso tempo scienziato, alchimista e psicologo. Ciascuno si è sentito utile, parte integrante del gruppo.

C’è il lavoro in campo e il lavoro dietro la scrivania. L’architetto politico è stato senza dubbio Aurelio De Laurentiis. È lui che ha tracciato la strada, ormai quasi diciannove anni fa. Ha sempre gestito il Napoli seguendo i principi della cultura d’impresa. Non aveva altra strada, lui che del calcio non conosceva neanche le regole. Ha rilevato il club in Serie C e lo ha accompagnato alla maggiore età. Passo dopo passo, per citare Antonio Bassolino. Nell’epoca del tutto e subito. Ha commesso i suoi errori, ovviamente. Ma ha dimostrato costanza, passo lungo, fermezza. E capacità di reagire ai momenti negativi. È lui che la scorsa estate ha tracciato la linea. Giù gli stipendi, senza guardare in faccia a nessuno. Se i presunti leader non ci stanno, amen. E ha avuto fortuna. Perché quei presunti leader – Insigne e Mertens soprattutto, Koulibaly è andato via per altre ragioni – hanno rifiutato i rinnovi a prezzi ribassati. Altrimenti Kvaratskhelia e Kim non sarebbero mai arrivati. E di conseguenza nemmeno lo scudetto.

E qui è entrato in scena il terzo protagonista. L’altro padre di questo scudetto: Cristiano Giuntoli, con la collaborazione di Micheli e Mantovani responsabili dello scouting. E torna il concetto di lavoro, vero trait d’union di questo successo. Lavoro che viene svolto 365 giorni l’anno. Guardando video. Leggendo schede. Allacciando e tenendo rapporti con procuratori, intermediari, giocatori e i familiari. I calciatori bisogna scovarli ma poi c’è da andare a prenderli. Sapere quando è il momento di chiamare, di coccolare. Quando invece c’è da tenere duro per non finire stritolati in pericolosi meccanismi di calciomercato. Bisogna cogliere l’attimo. Sapere quando affondare. Sennò non porti a casa il diamante grezzo Kvaratskhelia per pochi spiccioli. O il sud-coreano Kim. Calciatori che Giuntoli – fiorentino che ama la provincia – seguiva da anni. Lui che era stato deriso per aver preso Lobotka che tutto sembrava tranne un giocatore di calcio. Succede quando lo si affida a mani sbagliate. Lui che che aveva convinto De Laurentiis a investire 50 milioni di euro su Osimhen attaccante del Lille. Bisogna capirne di calcio. Ma il talento, da solo, non è nulla. Il talento si allena. A ogni livello. E in ogni settore.

Questo è lo scudetto del Napoli spiegato in poche righe. È il risultato di lavoro, passione, abnegazione. Voglia di non fermarsi, di continuare a imparare, ad aggiornarsi. Il resto è la solita solfa. Come la festa, la tanto strombazzata festa. Che resta un accessorio. Pur se un magnifico accessorio. Della laurea ci si ricorda per i sacrifici fatti, le nottate trascorse a studiare. La festa è doverosa e sacrosanta. Ma viene solo dopo aver tagliato il traguardo. Altrimenti non c’è nulla da festeggiare.

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