Fenomenologia del Napoli, o la storia romanzata di una squadra che via via scopre la sua grandezza

L'epopea del Napoli Campione d'Italia 24/25 vista da una prospettiva hegeliana: dalla coscienza al sapere assoluto

Champions

Napoli's Italian defender #22 Giovanni Di Lorenzo lifts the trophy with teammates during a ceremony for the Italian Champions following the Italian Serie A football match between Napoli and Cagliari at the Diego Armando Maradona stadium in Naples on May 23, 2025. (Photo by Carlo Hermann / AFP)

Fenomenologia del Napoli o la storia romanzata di una squadra che via via scopre la sua grandezza

All’indomani della schiacciante vittoria maturata ai danni del Bologna del tanto decantato Italiano, non posso fare a meno di riflettere sul percorso che ha portato il Napoli a un piano di consapevolezza e forza superiore. Un viaggio, un’epopea, una grande storia di quelle che tengono col fiato sospeso fino alla fine.

Ma ogni storia che si rispetti ci insegna che spesso il bene, la grandezza e la gloria nascono dalla sconfitta, dalla lotta e dalla miseria. E il Napoli di Antonio Conte affonda le sue possenti radici nella sconfitta che tanto ha scavato gli zigomi e lo spirito del salentino e che tanto ha spiritato gli occhi dei suoi ragazzi. E, come in ogni storia che si rispetti, c’è bisogno di uomini dal peso specifico non indifferente, forgiati dal lavoro, dalla fame e capaci di ripudiare le facili promesse di parole vane.

È una storia che parte dal dolore sportivo di un Napoli sparuto, sperduto, vittima della sua stessa arroganza e che, tramite un’applicazione quasi ascetica, ha ritrovato, se possibile, uno spirito superiore persino a quello del 2023.

Coscienza

1.2.3.: non sono gol, sono i jab potenti e precisi che il Verona assesta al mento del Napoli in quell’ormai sbiadito 18 agosto del 2024, che nient’altro sembrò se non la perversa continuazione di un’annata che consegnò alla storia una squadra irrimediabilmente malata. E invece fu la scarica di vita da cui sarebbe partito tutto, la siringa di adrenalina che John Travolta spara nel cuore di Uma Thurman in Pulp Fiction, l’umiliazione che costrinse De Laurentiis a far tacere la sua parte “chiavelliana” di coscienza per dare a Conte una squadra che potesse definirsi tale.

È lei: la presa di coscienza, la certezza sensibile, la percezione oggettiva di un fatto. Chiamatela come vi pare, la sconfitta del Bentegodi fu, paradossalmente, un toccasana. Neres, Lukaku, McTominay e Gilmour praticamente sul gong: ora c’è uno scheletro, ma le sue ossa sono alla rinfusa. Ora, le diverse proprietà di questo nuovo Napoli, che viene rimodellato su una struttura molto più fisica rispetto al passato, vanno riportate a un unico punto di riferimento che permetta di avere una visione unitaria: quella di Antonio Conte.

I perni in campo di questa nuova visione? McTominay, attorno al quale viene costruita la squadra, e Lukaku, alter ego di Conte. Le strutture razionali si intravedono: difesa compatta, poco spazio fra le linee e una verticalità letale. Dalla sconfitta di Verona arrivano otto vittorie e un pareggio. Poi, la sconfitta casalinga contro l’Atalanta. «Io vi dirò quando saremo pronti per fare qualcosa di importante, oggi non lo siamo»: così Conte negli spogliatoi al termine del match. Bastone e carota, riconoscendo la superiorità orobica ma, allo stesso tempo, instillando una pulce nell’orecchio dei suoi uomini.

“Oggi non lo siamo”: l’esca è chiara. Conte vuole capire se i suoi ragazzi vibrano come vibra lui, se siano armonizzati al suo diapason interiore. Se questi ragazzi prenderanno come sprone queste parole, perché se non accettano di non essere pronti per qualcosa, allora sono come lui: bramano e desiderano, soffrono e rimuginano, anelanti, rapaci e voraci di vittoria, di essere migliori di come sono adesso. Il messaggio è lanciato, il diapason ha vibrato.

Autocoscienza

San Siro, in casa dei campioni d’Italia: il desiderio fa capolino. Il match è tutto sommato equilibrato, con le fiammate di McTominay e Çalhanoğlu e, soprattutto, il palo di quest’ultimo su rigore al 77esimo.

Nel post-partita Antonio comunica come solo lui sa comunicare, perché è ciò che l’Italia brama: il dramma, la polemica, lo scontro. E Antonio te lo dà e ti fa ballare quando e come dice lui. “I retropensieri”: due parole, l’ossessione dell’intera Padania calcistica per mesi. Dicevamo, il desiderio c’è e non c’è bisogno di scomodare la dialettica servo-padrone: i ragazzi sono in piena sintonia con le fatiche imposte dagli allenamenti di Conte. I frutti si vedono eccome: tolto lo scivolone con la Lazio, il Napoli ottiene nove risultati utili, tra cui le vittorie contro l’Atalanta a Bergamo e quella contro l’imbattuta Juventus in casa.

Stadio Olimpico: al 93esimo Angeliño gela gli azzurri, aprendo una mini-crisi di risultati che culminerà con la sconfitta del 23 febbraio contro il Como e il sorpasso dell’Inter. Il Napoli può ancora vincere in potenza, ma è sicuro di sentire la vittoria come sua?

La scissione con una parte del tifo non aiuta: la piazza si spacca e Conte viene messo sul sempre attivo banco degli imputati di Parthenope, reo di non fare il cosiddetto “bel gioco”. È il momento di massima tensione, di lotta contro gli altri e soprattutto contro se stessi, contro tutte le zavorre che impongono dazio e ti frenano sul “vorrei ma non posso”. Lotta, contrasto, dialettica: c’è un disegno preciso nel modus operandi di Conte, non è un mero non staccare mai il piede dall’acceleratore. Non è un caso che i suoi calciatori spesso affermino di sentirsi migliorare come uomini, oltre che come atleti.

Ragione, Spirito e Religione

1° marzo 2025, ore 18. Napoli–Inter. 1° agosto pioveva, le sciarpe al cielo, i giochi di luci nelle curve.

“Loro magari sono i più forti, ma non oggi, non davanti alla nostra gente.”

Il Napoli impone le sue ragioni, la sua volontà, il suo credo e si ribella ferocemente alla pennellata di Dimarco: schiaccia la beneamata nella sua area di rigore per tutto il secondo tempo e, all’86esimo Billing, l’uomo della provvidenza, ribatte in rete di destro dopo la respinta di Martinez. Stop. Il tempo si ferma, i sospiri si cristallizzano e, fiero, potente e avvolgente, nasce lo Spirito. Si può fare, ma se si è insieme: squadra, città, tifosi. Si soffre insieme, si perde insieme, si vince insieme. Non esiste più un obiettivo individuale, ma un destino collettivo. Lo ritrovi negli sguardi di tuo figlio, tuo fratello, tuo padre, tuo nonno, tua madre, dello sconosciuto alla fermata della Vesuviana e di chiunque abbia respirato l’aria di quei giorni.

Certo, ci sono le incombenze di tutti i giorni, ma il pensiero è lì. E allora si soffre ancora, ancora e ancora: Monza, Torino, Genoa e quella maledetta/benedetta notte di Parma, che avrà fatto la fortuna di tutti i cardiologi di Napoli.

Incatenato alla concezione di Spirito è quella di religione, che a Napoli assume la forma di un ragazzo con una folta chioma di capelli neri, dei tratti indio e gli occhi più espressivi, tristi e umani che il calcio abbia mai visto. Diego, pensaci tu. Il popolo crede, il racconto può diventare epica, leggenda: ma è ancora rappresentazione, non consapevolezza.

Sapere assoluto

23 maggio 2025, Napoli–Cagliari. Lo scugnizzo che scuce il tricolore dalla maglia del bauscia e una città che si muove, respira e si agita tutta insieme, tutta unita.

“Si muove la città”, Lucio. E si muove anche McTominay, leggiadro e perfetto, mentre con la sua rovesciata stampa il tricolore sul petto della maglia azzurra. Tutto racchiuso lì. Non è un caso, non è un miracolo, non è un singolo. Il percorso, con tutte le sue contraddizioni, era necessario: ha forgiato gli spiriti dei protagonisti di questa storia, che alla fine si sono riconosciuti come vincitori.

Non solo il Napoli vince sapendo di vincere, ma sa che non avrebbe potuto vincere diversamente: il percorso era necessario.

Conclusione

E, alla chiusura di questo splendido anno, non possiamo fare a meno di pensare quanto fosse tutto necessario per vedere una squadra perfettamente consapevole di avere in sé la grandezza, frutto di un percorso accidentato ma che ha portato a una profonda conoscenza di se stessi.

Lo vedi negli occhi di McTominay, fieri e glaciali come quelli di un capitano pronto ad affrontare qualsiasi tempesta. Lo vedi negli occhi di Conte, che ha portato con sé una verità di cui tutti dovremmo fare tesoro: non c’è vittoria senza sacrificio, senza un percorso di conoscenza e autoconoscenza. Non è psicanalisi, è un semplice concetto che spesso ci si dimentica.

È stato un buon 2025, un bel viaggio, una bella storia. Eppure, se la storia ci ha insegnato qualcosa, è che lo Spirito non è uno stato permanente. Si manifesta, incendia, unisce e poi si ritrae, lasciando dietro di sé una responsabilità nuova, più pesante della sconfitta stessa. Conte lo sta ripetendo da inizio anno. Il Napoli ha saputo vincere perché ha attraversato il dolore, perché ha accettato di guardarsi allo specchio quando l’immagine era sgradevole, perché ha rinunciato alle scorciatoie. Ma proprio per questo, ora, non potrà più fingere. Non potrà più tornare innocente. Ogni partita futura porterà con sé il peso di questa consapevolezza: sapere di poter essere grandi, e sapere quanto costa esserlo.

Conte conosce bene la crudeltà della storia: ciò che è stato conquistato una volta non viene mai regalato due. Ogni ciclo chiede il suo tributo, ogni vetta pretende una nuova ascesa.

Per questo la vittoria non è un punto d’arrivo, ma una soglia. Un confine sottile tra ciò che si è stati e ciò che si rischia di diventare. Il Napoli ha imparato a vincere sapendo perché vince. Ora dovrà imparare a convivere con questa verità, senza smarrirla, senza tradirla. È stato un grande viaggio, sì. Ma le grandi storie non finiscono quando si alza un trofeo. Finiscono o ricominciano  quando si accetta che nulla di ciò che conta davvero è definitivo. E che, se vorrà restare all’altezza di se stesso, questo Napoli dovrà essere pronto, ancora una volta, a perdersi.

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