Ciò che Spalletti ha fatto a Napoli resta, sarebbe noioso persino fischiarlo

Le storie felici che terminano non pretendono vendette. Restano nel passato. L’unica virtù che non passa mai di moda è l’indifferenza, quella distanza elegante che dice “è stato bello, ma adesso basta.”

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Napoli's Italian coach Luciano Spalletti shouts instructions during the Italian Serie A football match between Napoli and Sampdoria on June 4, 2023 at the Diego-Maradona stadium in Naples. (Photo by Tiziana FABI / AFP)

Ciò che Spalletti ha fatto a Napoli resta, sarebbe noioso persino fischiarlo

C’è chi parla del ritorno di Spalletti al Maradona come di un pellegrinaggio, una processione verso il luogo del miracolo compiuto. Ma i miracoli, a Napoli, li celebrano in edicola e negli editoriali video di un giornalismo riarrangiato, e durano solo finché durano; poi tornano a essere cronaca, sudore, calcestruzzo.

E in questa città che mastica poesia e la sputa sotto forma di ruggine, il sentimentalismo ha fatto il suo tempo. Non commuove più nessuno. Nemmeno lui. Si dice che Spalletti torni per riallacciare un filo spezzato. Ma i fili, nel calcio, non si annodano: si tirano, si recidono, si bruciano, si dimenticano. Napoli gli aveva dato tutto e gli aveva chiesto tutto. E lui, che non è uno che ama i debiti, si era portato via lo scudetto come un ladro di notte, con la coscienza pesante e la valigia leggera. Come l’eroe che dormiva nello sgabuzzino a Castelvolturno e sognava di restare nella storia. Ma qui non è sentimentalismo: è mestiere. È la durezza dell’uomo che sa che il lavoro è un patto con il diavolo e che il diavolo non accetta ripensamenti. Ora torna. Ma torna vestito di bianconero. Come aveva pronosticato il presidente. E questo, da solo, basta a cancellare ogni ambiguità narrativa, ogni tentazione di romanticismo. Spalletti ritorna non per riabbracciare Napoli, ma per sfidarla. Non per la favola, ma per l’aritmetica del campionato. Non per nostalgia, ma per professione.

E poi c’è lei, l’ombra lunga che arriva da nord-ovest, sempre vestita di bianco e nero: la Juventus. La rivalità infinita, il vecchio rancore eterno che qui non ha bisogno di essere spiegato. La squadra degli immigrati che si sono mischiati ad un riscatto tra fabbrica e gradinate. Al Maradona basta un accenno di quei colori e ogni passato, anche il più glorioso, scolorisce come una maglia troppo lavata. Contro la Juventus, Napoli dimentica tutto: i sorrisi, i rancori, persino la retorica e la gratitudine.

Ciò che Spalletti ha fatto a Napoli resta. Non c’è ritorno, non c’è maglia nemica, non c’è curva ululante che possa scalfire quella stagione irripetibile. Quel titolo nessuno glielo toglie. Nemmeno Napoli, che pure è maestra nell’arte del rinnegare per amore. Lui se l’è tatuato sul braccio, come a volersi ricordare da solo che un giorno, in questa città che non perdona, è stato felice. Ma quella pagina è voltata, è voltata davvero: non ha più bisogno di essere riletta né strappata. Sta lì, come stanno le cose compiute.

E forse proprio per questo, persino fischiarlo sarebbe noioso. Un esercizio retorico, una recita già vista. Le storie felici che terminano non pretendono vendette, né epiloghi riscritti. Restano nel passato, dove devono restare, come le fotografie che non si rivedono più ma che nessuno osa buttare. In un mondo che cambia umore a ogni giornata di campionato, l’unica virtù che non passa mai di moda è l’indifferenza: quella calma superiore, quella distanza elegante che dice “è stato bello, ma adesso basta.”

Dall’altra parte, in panchina, c’è Antonio Conte. Juve nel sangue, Juve nel midollo, Juve persino nelle vene più sottili. Maestro assoluto del cinismo, collezionista di sacrifici, asceta della vittoria. Conte vive per vincere contro tutto e tutti, senza lasciarsi sfiorare da malinconie o nostalgie. Dove altri vedono sentimenti, lui vede ostacoli. Dove altri si perdono, lui stringe i denti e passa oltre. È l’allenatore perfetto per ricordare a tutti che il calcio non è un romanzo, ma un mestiere fatto di feroce lucidità.

Domenica al Maradona, ancora una volta, De Laurentiis potrà osservare la sua rivoluzione dispiegarsi come un quadro aperto: la trasformazione di un Napoli che ha cambiato pelle, immagine, gerarchie e anima. La prova definitiva che in questa città nulla resta com’era, nemmeno i suoi idoli. Si consumano, si rinnovano, si superano. E alla fine, il calcio continua a camminare senza voltarsi indietro.
Galeano avrebbe scritto che il calcio è l’ultima religione laica, e che ogni ritorno è un atto di fede. Ma questa volta non è fede. È fatica. È la sconfitta del romanticismo davanti alla brutalità del mestiere. Spalletti non torna per essere accolto: torna per essere misurato, controllato, sezionato come un vecchio amore che bussa quando ormai si è smesso di aspettarlo.

E il campo non ha memoria. Non conosce la nostalgia. E soprattutto, non perdona chi confonde il cuore con una scusa. L’indifferenza sì: quella resta, eterna, imperturbabile, perfetta. Come una porta che si chiude senza fare rumore.

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