Sinner: «Nella nostra vita di tennisti c’è ossessione, in un anno esci cinque volte la sera. Ma è passione non schiavitù»

Intervista al direttore di Sky Sport Federico Ferri: «ho sempre pensato che noi atleti non cambiamo il mondo. La pressione per me è arrivata soprattutto quando ho usato i soldi dei miei genitori, poi ho cominciato a vincere»

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Italy's Jannik Sinner reacts after a point as he plays against Spain's Carlos Alcaraz during their men's singles final tennis match on the fourteenth day of the 2025 Wimbledon Championships at The All England Lawn Tennis and Croquet Club in Wimbledon, southwest London, on July 13, 2025. (Photo by HENRY NICHOLLS / AFP)

La rinuncia alle Finals di Davis e l’orgoglio di essere italiano, ma non solo: nella lunga intervista rilasciata al direttore di Sky Sport, Federico Ferri, Jannik Sinner ha toccato numerosi temi interessanti. Ecco la versione integrale riportata dall’edizione online de Il Corriere dello Sport.

Le parole di Jannik Sinner

Jannik, bentornato per il quarto anno su Sky Sport per questa chiacchierata che precede l’Atp Finals. Siamo nel Centro Oncologico di Candiolo e mi ricordo in un tuo discorso, dopo aver vinto un trofeo, questa cosa: “Qui ci rendiamo conto di essere un po’ più piccoli e quali sono le cose che poi contano davvero” hai detto. 

«Sì, ecco. Per me è la terza volta che entro qua dentro, è molto emozionante perché comunque ti rendi conto di cosa sia più importante. Per tutti noi, per la vita giornaliera che abbiamo. Noi come atleti ci rendiamo conto, purtroppo, solo di quando vinci e perdi. Ma appena hai un problema anche piccolo di natura fisica, capisci che vuoi essere solo sano. È un posto molto speciale per fare questa intervista, sono molto contento di essere qui, davanti a gente molto, molto più importante di noi, tennisti o atleti, che siamo bravi in quello che facciamo. Io sono bravo in quello che faccio io, posso dire (applausi dalla platea, ndr). Però, ecco, diciamo, conta tutt’altro».

Sono seduto di fianco al primo e unico, per ora, numero uno del mondo italiano, il primo che dal 1877 ha vinto il torneo di Wimbledon. Ora, io non so se tu riesci, nel vortice della tua attività quotidiana, a renderti conto della storicità e della storia che stai scrivendo. Ci pensi, ce la fai o vivi solo giorno per giorno?

«Io credo di essere una persona che sta molto sul presente, ovviamente so di quello che ho fatto fino ad ora, nella mia molto giovane carriera, e ovviamente sono molto contento. Però il problema che abbiamo noi nel nostro sport è che giochiamo quasi tutte le settimane, quindi non ti rendi conto. Capita dopo la stagione, quando vai in vacanza, quando fai altre cose: lì inizi a pensare, a riflettere su quello che hai fatto. Quello che ho fatto io a Wimbledon è stato molto speciale. Per esempio, Matteo Berrettini è stato molto vicino: ha fatto la finale, e prima di quel match senti una cosa diversa, perché comunque entri in un centrale di nuovo. Ma è un’altra cosa: quando entri in un centrale nel primo turno, o in una semifinale, o una finale, cambia tantissimo. In quel momento lì ho provato a stare tanto sul presente, su quello che volevo fare: stare attento alla prestazione. Alzare questo titolo a me ha cambiato un po’, perché Wimbledon è sempre stato e rimarrà sempre il torneo del tennis, secondo me. Sono contento di portare questo trofeo anche in Italia, perché l’Italia è un paese che a me dà veramente tanto, come è stata anche la Coppa Davis, che abbiamo vinto due volte di fila. Ecco, ci sono alcuni tornei che fanno bene a essere di nuovo in Italia e sono molto contento di dare il mio contributo».

Tornando a quella partita, quanto c’era nella preparazione di quel match, se c’era qualcosa, di quanto hai imparato contro Alcaraz alla sconfitta a Roland Garros?

«Al Roland Garros si può dire che eravamo molto vicini, ho avuto tre match point! Quando le cose si complicano, c’è qualcosa dentro di me che mi fa capire che c’è ancora un tantissimo da lavorare. E dopo quella finale, mi ricordo che i primi due, tre giorni era un disastro, perché non riuscivo nemmeno a dormire. Non avevo energia durante il giorno, ero distrutto».

L’hai proprio patita?

«Sì, perché pensi ai tre match point, pensi ai 5-4 e servizio. Poi anche: ‘Il quinto set nel tie break potevo giocarlo meglio?’ Sì e no. Carlos ha giocato da Dio e quindi è molto difficile. Però ci pensi. Per questo ho deciso di andare ad Halle e giocare il torneo per vedere come stessi. E mentalmente non stavo benissimo. Poi è arrivato Wimbledon: la settimana prima, soprattutto durante l’allenamento, mi sono detto quanto mi volevo preparare per questo torneo. Lì è iniziato tutto un processo importante: siamo stati in campo tante ore, tre o quattro al giorno, per capire come si gioca sull’erba. L’anno scorso mi ero sentito molto bene su quella superficie, proprio come quest’anno: ho cominciato benissimo. Il mezzo miracolo è avvenuto durante la partita contro Grigor (Dimitrov, ndr), quando ero molto vicino alla sconfitta: non vuoi vincere così, però è successo. In semifinale ho giocato molto bene con Novak (Djokovic, ndr) e poi lì ho preso la fiducia per giocare un’ottima finale. Ho giocato molto bene, però anche lì era difficile perché ero break sopra nel primo, ho perso 6-4 e mi sono detto: ‘Ecco, ci risiamo’. Invece mi sono messo lì e ho cercato di essere il giocatore che volevo. Volevo far capire a me stesso che ero migliorato da Parigi».

Questo dimostra anche quanto c’è di mentale in queste partite. Tornando per un attimo a Parigi, Federer, che non esagera mai con le parole, dopo quel match, che ricordiamo è il più lungo della storia di uno Slam, ha detto che ci sono stati tre vincitori: tu, Alcaraz e il tennis. Ora, detto che ti potrai rifare e ci hai raccontato di quanto hai patito quella sconfitta, oggi riesci un po’ a vederla così? Riesci a vederla con l’animo di chi ha comunque disputato una grande sfida? Ricordo anche il momento in cui hai insegnato tu un po’ a noi a vederla in modo diverso: quando hai detto che stavi cominciando a pensare che comunque fosse stata la tua miglior partita sulla terra battuta.

«Sì, alla fine devi sempre provare a trovare le motivazioni positive. Credo che questo valga nella vita in generale. Me ne sono reso conto dopo: c’erano persone che venivano per farmi i complimenti, dirmi che era stata una partita incredibile… Lì ti rendi conto di aver fatto qualcosa di importante. Anche io adesso a volte rivedo certi punti sui social perché è normale, purtroppo: è la fortuna e la sfortuna proprio dei social. Però è stata una partita incredibile e mi sono messo nella testa che io ero uno dei due giocatori in campo: credo che una match così rimarrà per tanto tempo nella storia del tennis». 

In una conversazione contenuta in un docufilm, Juan Carlos Ferrero, l’allenatore di Alcaraz, dice una frase molto forte: “Per essere numero uno, devi diventare un po’ schiavo del tennis, schiavo del tuo sport”. Un’accezione che può essere anche un po’ negativa. Quello che mi pare è che tu, anche da Numero 1 e anche con questa pressione addosso, questa ossessione addosso, riesca ancora a vederla con piacere, cioè a vedere l’aspetto del divertimento. È così oppure cominci a sentirla, questa schiavitù?

«Io userei un’altra parola, cioè ‘passione’. Perché io ho tanta passione in quello che faccio. Ho avuto la fortuna di provare altri sport, quando ero giovane: sono andato a sciare, ho giocato a calcio, sono andato un po’ in bici, ho provato un po’ a correre. Però il tennis mi ha insegnato che posso vedere me stesso, cioè ritrovo me stesso in un campo: fuori dal campo può succedere qualsiasi cosa, ma in campo mi sento al sicuro. E quindi, soprattutto quando le cose vanno bene, devi migliorare ancora di più e devi lavorare tanto. Perché è proprio lì che fai la differenza. Quando vinco una partita, quando le sensazioni sono quelle positive, vado in campo ad allenarmi perché la mente apprende molto di più tutti i piccoli dettagli. Quando perdi e sei un pochettino più negativo, a volte non ha neanche tanto senso andare in campo. Però ognuno vede le cose in modo diverso. Ci sono tanti sacrifici da fare. Questo è sempre stato così e sarà sempre così. E per me il tennis sarà sempre al primo posto, fino a quando deciderò di giocarci. Spero di farlo per tanti anni, perché se il mio fisico me lo permette, le persone intorno lo capiscono, la famiglia mi sostiene, ho un team forte, allora si continua a spingere. Ci sono tanti sacrifici, c’è un’ossessione incredibile perché devi sempre mangiare bene, ti svegli il mattino, vai a dormire presto. La sera magari in un anno esci cinque volte, non fai mai niente. Però a me piace così, io sono fatto così».

Il tasso del divertimento è insomma ancora alto.

«Sì. Poi è normale che quando raggiungi certi obiettivi c’è un piccolo calo: non possiamo stare per un anno intero sempre al top. A me è successo un pochettino dopo Wimbledon, quando ho comunque sempre giocato bene: ho giocato la finale a Cincinnati, poi Us Open, ma sentivo che non avevo questa forza di spingere. C’erano altri giocatori motivati. Ora ho un obiettivo davanti e lo voglio raggiungere di nuovo, così come è successo nelle scorse due o tre settimane. Ho giocato molto bene, mi sono sempre allenato bene, ho avuto energia. È molto difficile essere stabili mentalmente sempre, l’importante è che il calo non porti troppo giù, quasi sottoterra, ma che si mantenga a un livello alto. E credo che per il momento io sia abbastanza bravo a gestirlo (altri applausi, ndr)». 

Secondo me c’è differenza tra il fare l’umile, o meglio dire fare il modesto, e essere umile. Io ho l’impressione che il fatto di avere questo approccio mentale, oltre al tuo essere ontologicamente umile, sia indispensabile per te: l’approccio al tennis, allo sport, alla vita, con l’umiltà che ti contraddistingue è una parte fondamentale del tuo successo in campo. È così?

«Io ho sempre pensato che noi atleti non cambiamo il mondo. Ho sempre pensato così. Poi ognuno ha degli idoli. All’inizio per è stato Andreas Seppi, perché conoscevo solo lui. Poi dopo, quando sono entrato un po’ nel tennis, è diventato Roger (Federer, ndr). Quindi ho conosciuto Rafa (Nadal, ndr), una persona umanamente incredibile. Ho conosciuto un po’ Nole (Djokovic, ndr), bravissimo in quello che fa. Ma ti rendi conto che sono persone, il mondo non cambia grazie a loro. Invece noi siamo seduti qua e la differenza la fate proprio voi (si rivolge al pubblico, ndr) che riuscite quasi a ridare la vita o a risolvere dei problemi che sembrano impossibili. Voi state facendo una cosa incredibile! Noi giochiamo solo a tennis con una pallina che cerchiamo di tirare in campo, non c’è tanto di più. Poi ci sono alcuni che lo fanno bene, alcuni che non lo fanno bene. Però sempre non cambiamo la vita (applausi, ndr). Possiamo dare un input di come uno riesce a vivere il successo? Forse sì, forse no. Ma non cambiamo la vita».

Abbiamo fatto questa prima chiacchierata quattro anni fa, nel 2022: oggi sei diventato il numero 1 del mondo, sei una delle persone più conosciute al mondo. E peraltro tu arrivi da un modo di essere che non è proprio il più aperto alla popolarità, non te la vai a cercare. Come ci convivi?

«Alla fine ho pur sempre 24 anni. Non ne ho 35 o 40: una persona che ha 40 anni la ascolto molto di più e non mi viene da dire di essere in una certa posizione di classifica o di aver vinto questo o quel torneo. La parte umana deve essere sempre sopra il tennista. Ci sono altri giocatori che pensano in un altro modo. Faccio un esempio. Io sono sempre stato patito di macchine».

Ancora adesso mi pare!

«Sì, ancora adesso, meno male che ho solo due parcheggi a Monaco (ride, ndr)! Quando ho fatto i primi soldi, volevo comprare una macchina specifica ma Alex (Vittur, il manager, ndr),  che è sempre stato vicino a me, mi ha detto: ‘No! Tu questa non te la compri, perché hai 18 anni: dove vuoi andare?’. Meno male che ho avuto e ho una persona del genere intorno a me, perché sennò succede questo: la casa di 50 metri quadri a 20 anni diventa un palazzo; al posto di cucinare a casa vai nel ristorante Tre Stelle Michelin. Diventa tutto troppo. Ora inizio a capire! Meno male che ho avuto questa persona, sto maturando però alla fine ho sempre 24 anni: anche io faccio i miei errori fuori dal campo e senza di lui avrei fatto tante cose sbagliate, glielo dico sempre. Tanti atleti una figura così non ce l’hanno, magari per una questione di tempi, o solo di fortuna». 

Anche l’educazione dei genitori, perché un’altra cosa di cui ci rendiamo conto spesso (e magari, vista la tua fama, possiamo mandare un messaggio in questa direzione) è che tu sei cresciuto senza la pressione dei genitori che volevano che tu diventassi forte, che diventassi più bravo nel tuo sport per permettere di vivere il loro sogno riportato sul figlio. È molto diverso questo, cioè non avere la pressione dei genitori e avere dei genitori che ti fanno stare coi piedi per terra?

«I miei genitori volevano e vogliono sempre che io sia contento. Ovviamente sono molto felici di quello che sono diventato e tutto il successo che ho raggiunto. Hanno visto che non ero felice dopo Parigi, o durante i tre mesi di squalifica in cui ho vissuto momenti difficili, e lì li ho visti preoccupati davvero. Le due fortune che ho avuto sono state sicuramente Alex (Vittur, ndr) e i miei genitori. C’è anche da dire che Dio mi ha dato il talento di giocare a tennis, che ho questo fisico, perché magari con dieci centimetri in meno di altezza farei molta più fatica. Io mi reputo la persona più fortunata al mondo. Poi, ovviamente, ci sono i sacrifici e tutto il resto. Ma è tutto secondario, è una scelta personale». 

Che cosa ci vuole per essere tuo amico?

«Dovresti chiederlo ai miei amici! Io cerco la semplicità. Onestamente i miei amici li ho già trovati: i migliori sono quelli con cui vai a scuola, a sciare insieme, con cui giochi a calcio».

Insomma, quando eri solo Jannik.

«Quando ero io, sì. Ho i miei amici e posso contare sempre su di loro. Sono onesti, trovano sempre il tempo per parlare anche se sono le tre o quattro di notte. Ma così sono anche io, perché è fondamentale ascoltare gli altri e aiutarli quando serve. Io voglio stare con persone oneste. Ed è così anche il mio team».

Ecco, da questo punto di vista: si crea con la frequentazione costante, lo stare sempre insieme tutto l’anno, una forma di vicinanza o di amicizia anche nel team?

«Certo. Il team lo vedo più di tutte le altre persone. A volte viviamo insieme in casa, come per esempio a Wimbledon o Indian Wells. Siamo quasi tutti nello stesso posto: sono le persone che io vedo al mattino quando mi sveglio, quando voglio scherzare… in qualsiasi momento insomma. E se lì non ti fidi al 100%, fai fatica e non funziona. Puoi essere il più bravo preparatore fisico, ma se non c’è questa unione, questa fiducia, non funziona. È impossibile. E a volte è proprio così: provi, ma non funziona. Anche se il lavoro viene fatto da Dio. Però è così. Io cerco questo nelle persone».

E questo spiega i cambiamenti e le decisioni prese di recente.

«Esatto».

Non so se hai già fatto la battuta a Simone Vagnozzi che hai vinto due tornei senza di lui!

«Ancora no, lo vedo stasera (ride, ndr)». 

Per quanto riguarda Cahill invece ci sono aggiornamenti, novità sul tuo tentativo di convincerlo ad andare avanti?

«Questa sarà la sfida più grande di quest’anno! Ancora dobbiamo parlare, perché la stagione non è finita: c’è un torneo importante qua a Torino, sappiamo cosa c’è in palio. Però dopo ovviamente ci dobbiamo sedere e confrontarci. Lui ha compiuto 60 anni quest’anno, è stato nel tennis da giocatore, poi è entrato come allenatore, quindi è in questo mondo da 40, 45 anni: capisco anche lui! Io mi vedo insieme a Cahill ancora per un altro anno, perché è una persona che va forse anche oltre il concetto di allenatore: è un po’ come il padre che unisce tutto il team, soprattutto quando le cose non vanno benissimo. È stato fondamentale fino a ora per la mia crescita, per quello che sono. È stato fondamentale anche per Simone (Vagnozzi, ndr) perché mi ha preso quando ero tra i primi dieci e anche lì dalla parte dell’allenatore c’è tanta pressione. Speriamo di convincerlo».

Qualche volta, a fianco al tuo team, nei tornei ci sono anche i tuoi genitori. Suo malgrado, per la riservatezza, tua mamma è diventata un po’ una figura popolare per chi guarda le partite da casa, perché ha le stesse espressioni che molto spesso abbiamo noi quando soffriamo per le tue partite. Ma a questo punto mi viene quasi da chiederti se il mental coach vada utilizzato anche per chi ti segue in tribuna…

«Allora, quando ho iniziato a giocare meglio, parlo di due, tre anni fa, mia mamma mi ha detto: ‘Io non voglio essere nel tuo box, però se fai le finali in un Grande Slam in Europa io voglio essere lì’».

In Europa?

«Sì, in Europa. Io all’inizio io ho riso, ho detto sì. ‘Tanto non succederà mai’, pensavo. Vado in finale a Roland Garros, la chiamo e mi conferma che sarebbe venuta. Viene, si mette nel box e vede una partita in cui succede di tutto e di più. Dopo Parigi le ho detto: ‘Guarda, hai superato questo, puoi superare tutto’. E invece… Faccio un piccolo passo indietro. A Roma non ha visto nessuna partita, tranne la prima contro Navone. Si è ripresentata alla finale, e ho perso. Quindi a Parigi, e ho perso. Quando mi ha detto che sarebbe venuta a Wimbledon, non glielo volevo dire, ma mi sono detto che sarebbe stata l’ultima chance (ride, ndr)! Adesso in realtà ha chiesto a Riccardo Ceccarelli (il suo mental coach, ndr), se c’è qualcosa da imparare. Ora si metterà lì e piano piano imparerà anche lei: già adesso si vede che non sorride più, che è tutta focalizzata. Vedrai che non farà nemmeno più l’applauso!».

Il tuo momento di oggi è certamente straordinario dal punto di vista dei risultati: sei tornato Numero 1 del mondo. Avevi già detto che quella posizione cambia, ma questa corsa, l’alternanza con il secondo posto, la segui o la lasci perdere? Ti pesa pensare che potresti chiudere la stagione al primo posto?

«Ovviamente io conosco tutti gli scenari, è parte del mio lavoro. Ma è tutta una conseguenza di come vai a un torneo, di come giochi la partita, di quanta pressione ti metti ma anche di quanta tensione c’è. Perché quando siamo tesi, c’è confusione: inizi a servire male, ti muovi molto peggio, respiri molto peggio. E quando magari dopo un set dovresti essere fresco, arrivano i crampi. Come è successo a me a Shanghai. È molto importante sapere quello che potrebbe succedere a livello di classifica, ma poi bisogna stare attenti a come si gioca, pensare punto dopo punto. A Parigi la scorsa settimana ho fatto molto bene, perché avevo sbagliato in Cina. E in Cina potevo già tornare in prima posizione. Io sto molto attento a quello che devo fare io. Andiamo giorno dopo giorno, facciamo con calma: se succede, bene; se no. va come va. Non c’è tanto da fare. Però sono contento del percorso che sto facendo, a prescindere dai risultati».

A proposito del percorso: dopo un’altra finale persa, hai detto di voler mettere altre potenzialità, altri elementi nel tuo bagaglio tecnico. A che punto siamo di quel percorso? Cosa senti di avere aggiunto, cosa stai cercando di aggiungere?

«Quello che abbiamo sicuramente cambiato è stato il servizio: prima andavo tanto fuori tempo, ora è molto più regolare. È un colpo per cui ho faticato molto, perché è l’unico che nel nostro sport fai del tutto da solo: puoi decidere la velocità, la rotazione, gli angoli, il tempo di come servire, anche quanto tempo prendere prima di servire. Ci sono tante cose che puoi cambiare. Siamo partiti da lì e a Pechino abbiamo cominciato a servire molto molto meglio. Ci abbiamo lavorato ancora: in finale a Parigi ho servito molto bene, ma sentivo che non era lo stesso movimento di Vienna. Quindi è un colpo che perdo abbastanza velocemente. Da fondo campo invece stiamo cercando di variare. Tanti giocatori variano con lo slice e con il colpo normale, io cambio molto con la rotazione, ma sempre giocando da colpo normale. In tv non si vede a causa dell’inquadratura, ma abbiamo aggiunto questa caratteristica. Stiamo cercando anche di andare un pochettino più a rete e soprattutto di giocare col punteggio. Perché il punteggio è fondamentale per tutta la carriera».

Questo è un tema molto interessante che hai sollevato proprio dopo la vittoria a Parigi. Ce lo spieghi bene? Giocare col punteggio cosa significa? Vuol dire gestire il momento della partita, anche per farla finire un po’ prima?

«No, non è questione di finirla prima: magari ci fosse solo il tasto come alla Playstation! È molto importante, magari quando sei un break sopra, provare ad andare a rete, trovare la giocata un pochettino prima. Non vuol dire che butto via il punto, anzi, sto cercando una soluzione che mi può servire nel tie break, sul cinque pari. E in più aiuta a essere ancora più aggressivi: perché se inizi a correre una partita dopo l’altra, già spendi tutte le energie, è molto difficile poi recuperare dal punto di vista fisico».

Quando parli di carriera è proprio per il fatto che, anche in generale, ma soprattutto per il tennis di oggi, questa attenzione al dispendio energetico è fondamentale per la costruzione del futuro?

«Guardiamo la Formula 1: chi riesce a gestire le gomme in modo migliore quando sa che non può superare, aspetta un attimo. Magari poi dopo c’è il DRS, e riesce a superare più facilmente. Quello che ha gestito veramente bene il risultato secondo me è Roger (Federer, ndr), Novak (Djokovic, ndr) inizia a farlo molto bene, Carlos (Alcaraz, ndr), se guardiamo, lo fa benissimo: quando è break sopra, lui va. Ripeto, non stanno buttando via il game, anzi, lo giocano per vincere. Ma in modo diverso. È tutto un percorso fondamentale, in qualsiasi torneo». 

Che consiglio daresti per un ragazzo, per un amatore, su come si migliora un colpo? Come ti puoi concentrare per migliorare?

«Non lo so, ti giuro (ride, ndr). È una domanda talmente personale. Ormai non c’è neanche più la regola della tecnica, perché se tu guardi il mio dritto e il dritto di Carlos (Alcaraz, ndr), sono diversi, ma funzionano entrambi. In uno c’è il braccio dritto, io ce l’ho piegato, magari devo migliorare per averlo in un certo modo, magari poi funziona ancora meglio, però dovrei cambiare l’impugnatura, lo swing… Sono davvero tante cose. È la stessa cosa anche col servizio: alcuni servono in modo molto più veloce, altri con il lancio altissimo. Non c’è una soluzione, è una combinazione tra allenatore e giocatore: provi certe cose e poi inizi il confronto e capisci cosa senti e cosa senti meno. Secondo me all’inizio è molto facile migliorare, il problema è poi l’ultimo 2%-3%, in cui ci metti tanto. È questo il nostro lavoro: sono le differenze a fare tanto».

Usi ancora la video analisi come facevi da ragazzino, quando hai lavorato con Danilo Pizzorno o Riccardo Piatti? Ti rivedi o lo fai di meno?

«Lo faccio, per me è sempre stato fondamentale. Vengo da uno sport come lo sci in cui ne ho sempre fatte tante: mi ricordo tanti allenamenti sulla pista privata ed ero solo con il mio allenatore, che tra l’altro vorrei ringraziare perché è venuto a Vienna a vedermi. Mi ricordo che un giorno avevamo la nostra pista dalle 8 fino alle 10.15. In due ore si dovrebbe sciare tanto, no? Tutto il contrario! Sarò sceso forse quattro volte: tutto il resto del tempo l’ho passato a rivedere i video, tra curve, posizione degli sci e altro. E la stessa cosa mi aiuta tantissimo nel tennis: vedere come faccio il servizio o il rovescio, come lo prendo, come impugno la racchetta. È e sarà sempre fondamentale. E non servono nemmeno telecamere particolarmente performanti: basta il cellulare».

Sono rimasto colpito quest’anno da una tua dichiarazione che fa riferimento ai tuoi inizi con il tennis, legata al valore dei soldi se non più sul valore della pragmaticità. Cioè che tu eri consapevole dei sacrifici necessari per farti giocare ad alto livello da ragazzino. Quindi ti sei dato quasi un tempo limite per non abusare di questa disponibilità dei tuoi genitori che ti dovevano mantenere.

«Sì, quando ho iniziato a giocare ho sempre detto ai miei genitori che se fossi rimasto a 24, 25 anni in posizione 400, mi avrebbero dovuto fermare: non perché mi sarebbe mancata la voglia, ma perché probabilmente mi sarebbe mancato qualcosa per vincere. Poi in realtà ognuno ha un tempo diverso: se guardiamo Sonego, per esempio, ha fatto una carriera incredibile, perché ci ha messo passione. Noi in famiglia non avevamo mai tanti soldi, quindi la pressione per me è arrivata soprattutto quando ho usato i soldi dei miei genitori. Quando partecipi a un torneo, spendi tanto. Se uno gioca un 15mila per esempio già paga molto l’iscrizione. Ma costa tutto: l’incordatura, le palle nuove… Io ho avuto la fortuna di aver vinto il primo Challenger a 17, 18 anni. Poi da lì sono partito: quando ho iniziato a guadagnare i miei soldi, ero molto più tranquillo. E quando si è tranquilli mentalmente, diventa tutto più facile».

Hai dedicato un po’ della vittoria a Wimbledon all’Italia: hai detto una bella frase, cioè che sia un Paese che merita tanto e di essere orgoglioso di rappresentarlo. Quando viene messa in dubbio questa sua italianità, ti pesa? O riesci a farti scivolare addosso queste critiche?

«Sai, le critiche ci sono e ci saranno sempre. Perché se vinci, potevi farlo diversamente; se perdi, hai perso; se non giochi un torneo, non va bene. A prescindere da come fai, sbagli. Io penso che le critiche a volte servano, fanno parte del mondo in cui viviamo. Ma la cosa più importante sono le persone che hai intorno: è una banalità, ma è questa la soluzione e io ho sempre avuto intorno a me persone che mi volevano bene. Mi basta questo per stare tranquillo. Poi, il tennis è talmente individuale… Sei da solo in campo e devi fare anche delle scelte da solo. È sempre stato così e sarà sempre così. Io dico che senza il mio team non sarei mai il giocatore che sono, ed è un lavoro di squadra, ma poi ognuno fa le proprie scelte. Non ho voglia di perdere il tempo di rispondere con le parole, preferisco andare in campo e giocare a tennis perché è quello che amo. Appena sono in campo, so che nessuno mi può toccare, nessuno mi può parlare o urlare. Sto bene lì. Quando esco, mi faccio la doccia e vado a casa… (applausi, ndr)».

Vado un po’ fuori tema, però c’è una cosa che ho in testa da un po’ di tempo. Ho citato una volta Paolo Egonu ma potrei citarne molti altri, per altri motivi: ma tu pensi mai che se fossi nato 50 km più in giù, avresti meno critiche sul fatto di essere o non essere italiano?

«Questa è una una domanda a cui non so rispondere. È un po’ come dire: ‘Perché oggi c’è il sole e non piove?’. Boh! Io sono orgoglioso di essere italiano, sono molto felice di essere nato in Italia e non in Austria o ad un’altra parte, perché ho sempre detto e lo ribadisco con tanta onestà che questo paese si merita molto di più anche di quello che sto facendo io.  Abbiamo le strutture, gli allenatori, i giocatori. Abbiamo tantissime mentalità differenti che però sono anche la nostra forza. Alcuni poi dicono che l’Alto Adige sia diverso, che la Sicilia sia totalmente diversa… Ma è anche la nostra fortuna! Abbiamo tutto per competere contro i migliori al mondo: dobbiamo unirci, stare insieme e darci forza per avere più trofei. Con il massimo orgoglio possibile, perché l’Italia lo merita (applausi, ndr)». 

Per spiegare meglio il senso delle scelte che dicevi prima, in riferimento alla Davis ma non solo: in generale, sulla programmazione, quanto può spostare una settimana in più o in meno di allenamento o di riposo? Quanto viene calendarizzata anche la stagione sulla base della prevenzione degli infortuni, del sovraccarico che potete avere? Sono cose non scontate per chi magari giudica da fuori ed è importante saperle.

«La lunghezza della programmazione di tutti i tornei è sempre la stessa. A volte c’è una settimana in più, a volte una in meno. Il vero problema è che un torneo una volta durava una settimana, ora quasi due: vuol dire che hai molto meno tempo per recuperare. Che vuol dire soprattutto prevenzione. Se guardiamo la scorsa stagione, non ho giocato tanti tornei per essere pronto a farne altri a cui tenevo di più. L’anno scorso per esempio non sono stato a Parigi, perché volevo essere pronto per Torino e per la Davis. Soprattutto a fine stagione, una settimana fa molto: veniamo da pressioni e da emozioni, perché non è facile nemmeno recuperare da quelle, sia che si vinca, sia che si perda. Ci vuole tanto tempo a mettere tutte le cose insieme. Se tu hai una settimana in più di preparazione, hai anche una settimana in più di vacanza. Ti prepari quindi più forte, più carico con più energie e anche con più voglia: giochiamo a tennis tutti i giorni, ci sta che a volte si abbia meno voglia di andare in campo. La preparazione prevede anche carichi di lavoro diversi e quelle più pesanti sono importantissime, soprattutto a lungo termine. Per me quest’anno non c’è stato un minimo di dubbio che questa fosse la scelta giusta. L’anno scorso invece volevo giocare la Davis. Il mio team mi ha anche un po’ trattenuto, ma io volevo esserci: l’avevo promesso a Berrettini, perché quando abbiamo vinto nel 2023 lui era lì a sostenerci, ci siamo abbracciati e gli avevo promesso che l’avremmo vinta anche insieme. Già alla fine dell’edizione scorsa avevo deciso che quest’anno non ci sarei stato. La cosa che a me non piace è che abbiamo una squadra incredibile anche senza di me e nessuno ne parla: ci possiamo permettere di non convocare il 26 al mondo, cioè Darderi, perché ci sono Cobolli, Musetti e Matteo (Berrettini, ndr) stesso. E anche la squadra di doppio è fortissima. La possibilità di vincere è alta! Anche a me dispiace non esserci, però guardiamo il lato positivo: c’è una qualità di giocatori diversi incredibile. Non vedo perché non si possa vincere anche quest’anno».

Rispetto a tutto quello che abbiamo in questa chiacchierata c’è di fondo un amore, una passione per te da parte del pubblico che poi qui a Torino si manifesta sul campo: quel coro che ti fanno all’ingresso che supera le generazioni, tra bambini piccolissimi, persone anziane, uomini, donne… Sei molto trasversale da questo punto di vista. Ti rendi che riesci a regalare dei momenti di felicità alle persone?

«Sì, me ne rendo conto. Soprattutto con i ragazzini. Questa secondo me è la cosa più bella, perché sono il nostro futuro. Poi noi questa settimana dobbiamo fare tutti il tifo per Lorenzo (Musetti, ndr), perché sarebbe veramente bello se fossimo in due qui a Torino. Avremmo due singolaristi, una coppia del doppio: ci sarebbe tanta Italia, in Italia. Io sono cresciuto qui, ho sempre dedicato le mie vittorie all’Italia, ma non sarei il giocatore che sono senza tutti i sostegni che ottengo tutti i giorni da tutte le parti del mondo. Per esempio, a New York ci sono tantissimi italiani che mi sostengono, ma ho il sostegno anche quando vado in Australia: ci sono tanti posti che mi fanno sentire amato e, ripeto, orgoglioso di essere italiano».

Come stai preparando le Finals e che cosa ti aspetti da questo torneo? Un’altra sfida con Alcaraz?

«(Ride, ndr) Non lo so! È tutto imprevedibile. Sarà un’edizione molto speciale a prescindere da quello che succederà. La prepariamo nel migliore dei modi: darò tutte le mie energie fisiche e mentali. È probabilmente arrivato il momento di dire che sia il torneo più importante di quest’anno, anche se ho fatto tante cose. Mi voglio divertire, giocare davanti al pubblico italiano che anche a Roma mi ha sempre dato molto affetto. A Torino è comunque diverso: ci sono gli otto giocatori migliori al mondo, inizi quindi subito forte. Lo spettacolo sarà molto alto, teso. Speriamo di essere in due singolaristi italiani e in un bello spettacolo».

Qui alle nostre spalle ci sono un po’ di fotografie della tua stagione. Forse quella più incredibile è dietro di te: tu con la cravatta. Vorrei chiudere questa chiacchierata con un tuo voto al ballo con Iga Swiatek dopo la vittoria di Wimbledon…

«(Ride, ndr) Sì, lì avevo bevuto un po’ prima! Però è stato carino. Vedendo tutte le foto a me piace molto quella con papà. Quell’abbraccio. Normalmente è difficile che ci abbracciamo, ma è stato bellissimo vederlo felice. Mi ricordo la prima volta, quando ho giocato a Wimbledon: lui era lì, sono entrato nel campo centrale, l’ho visto ed è stato come sentirgli dire ce l’avessi fatta. Mi dava questa impressione. Forse quella foto è la più bella di tutte. Anche più di quella in cui ero vestito bene…».

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