Sinner è un’azienda individuale, non un’eccellenza del made in Italy
Anche Federer disse no alla Coppa Davis, ma in Svizzera nessuno s'è mai sognato di farne un "caso nazionale". Usciamo dal mito del nazional-popolare

NEW YORK, NEW YORK - SEPTEMBER 07: Jannik Sinner of Italy reacts against Carlos Alcaraz of Spain during their Men's Singles Final match on Day Fifteen of the 2025 US Open at USTA Billie Jean King National Tennis Center on September 07, 2025 in New York City. Elsa/Getty Images/AFP (Photo by ELSA / GETTY IMAGES NORTH AMERICA / Getty Images via AFP)
Ha detto no a Mattarella. Ha detto no a Sanremo. Ha detto no – la bellezza di quattro volte – alla Coppa Davis. Cosa manca? Se Gattuso lo convocasse per i playoff mondiali solo per il gusto di incassare pure lui un rifiuto, avrebbe completato il pantheon dei ripudiati istituzionali di questo garrulo Paese. Sarebbe il caso di chiudere la questione: tu, a Sinner, “nazional-popolare” non glielo dici. Perché proprio non è il caso: il campione che pure spesso accarezza per quieto vivere la retorica identitarista, è la quintessenza del professionista apolide. Non c’è statuina presepiale che possa trasformarlo a nostro uso e consumo.
Dopo l’ultimo no alla Davis, due anni fa, la Gazzetta dello Sport si infilò in un buco nero d’autolesionismo lanciando la campagna a mezzo stampa sul “caso nazionale”. Ora che Sinner è il Re Mida della Seo i giornali italiani devono andarci coi piedi di piombo. La Gazzetta oggi ha messo in copertina persino l’appello: “Ripensaci”. Suona tipo “sta casa aspetta a te”. La Repubblica ha invece affidato alla firma di Emanuela Audisio il rinfaccio sull’inopportunità, anche con qualche guizzo provocatorio notevole (“Sinner ha vinto due volte anche il ricchissimo Six Kings Slam, vediamo se l’anno prossimo lo salta”).
Peraltro è sempre la stessa giostra, non c’è verso di uscirne. Nei giorni del no del 2023, la Gazzetta scriveva con un certo afflato:
Un capolavoro che parla di incomunicabilità, solitudine, ambizioni inseguite e non realizzate. Il Grande Freddo e la sua trama rimangono una pietra miliare del cinema, paradigma di tutte le scelte diverse che ci si ritrova a fronteggiare nella vita. Esiste sempre un’altra strada, e quella di Sinner verso la Coppa Davis è lastricata di tormenti.
Allora è forse il caso di ricordare che la storia del tennis è zeppa di no “eccellenti”, come usa dire. Nel 2015 il più immacolato di tutti, Roger Federer, si negò alla alla Davis Cup per la Svizzera dopo averla vinta nel 2014, con queste parole: “È stato un grande peso per me nel corso della mia carriera e una delle cose che mi ha causato più difficoltà nella vita di tante altre”.
Ma come lui e prima di lui, Pete Sampras e Agassi ne vinsero alcune e ad altre preferirono non partecipare. Lendl per gran parte della carriera non ha mai nascosto che gli Slam fossero la sua priorità assoluta. Connors la detestava. Borg rifiutò di giocare in Coppa Davis nel 1976 minacciando il boicottaggio l’anno dopo. Nel 1978 e nel 79 accettò di far parte della squadra dopo che la Federazione svedese gli garantì un bel gettone di presenza da oltre 100.000 dollari. Per l’epoca erano soldi, oggi Zverev incassa un milione e mezzo di euro per un’oretta di tennis a Riad. Sono solo esempi, e sicuramente molti ne dimentichiamo. Ma all’epoca la Davis era ancora la “vera” Davis, quella in formato XL, con la trasferte pericolose, i cinque set, e tutto l’armamentario epico che oggi non ha più, nella sua forma sincopata rilanciata da Piquet.
La tiritera ipocrita del “nostro” fuoriclasse che prima, quando non era ancora fuoriclasse, era percepito austriaco, etnia notoriamente meno consona, suona ancora una volta sgrammaticata. Come ha ben ricordato Bertolucci, i tennisti sono aziende personali, non hanno bandiera o squadra. Investono e rischiano sulla propria pelle. Non sono un’eccellenza del made in Italy, una mozzarella di Battipaglia. Non ci risulta che in Svizzera costruirono un “caso nazionale” quando Federer disse i suoi no. Ma quelli so’ svizzeri, quasi austriaci.