La grande lezione di Vingegaard alla Vuelta bloccata dai pro-Pal: lo sport è politica (Paìs)
"Ha appoggiato i manifestanti, ha capito che lo sport e la politica non sono eterei: sono umanità"

Jumbo-Visma's Danish rider Jonas Vingegaard wearing the overall leader's yellow jersey celebrates in the finish area after the 16th stage of the 110th edition of the Tour de France cycling race, 22 km individual time trial between Passy and Combloux, in the French Alps, on July 18, 2023. Anne-Christine POUJOULAT / POOL / AFP
“Jonas Vingegaard ha vinto ieri la Vuelta più famosa dai tempi di Rominger e Indurain, con quei laghi di Covadonga che emergevano dalla nebbia e le urla di José María García. Mai prima d’ora, nelle sue novanta edizioni, aveva ottenuto un riconoscimento sociale e internazionale maggiore”, scrive El Paìs. I manifestanti pro Palestina hanno bloccato l’ultima tappa a Madrid, impedendo il gran finale della gara e la premiazione. Ed è stato un grandissimo momento di sport, nella sua accezione più moderna: lo sport politico.
“Lo sport moderno – scrive nel suo editoriale Paco Cerdà – è nato per sublimare la guerra quando il mondo si muoveva ancora al suono delle guerre tra nazioni. Vincere, perdere, combattere, odiare il rivale, infiammare le masse, gridare l’inno, sventolare la bandiera: la stessa struttura mentale con meno spargimento di sangue nelle trincee. Poi, quando gli stati hanno ceduto il controllo del mondo al capitale, lo sport postmoderno si è allineato alle esigenze del capitalismo globale. Questo era il nuovo destino dello sport professionistico: essere ridotto a un oggetto di consumo. Vecchie maglie da calcio macchiate dalle sponsorizzazioni di dittature e case da gioco. Mondiali giocati nel deserto del Qatar. Supercoppe di Spagna impregnate del tanfo di petrodollari sporchi a 6.000 chilometri dai tifosi. L’epopea omerica del citius, altius, fortius, quella favola che tanto affascina noi romantici che, con ipocrita entusiasmo, ci mettiamo la benda infantile sugli occhi, vale solo se può essere tradotta in denaro. Dal volo di Air Jordan con le sue Nike alle pubblicità a cascata di quel marchio di ciclismo e alla triste figura di Lamine Yamal”.
Oggi c’è il passaggio successivo: ai soldi s’è affiancata la politica, nuovo. E’ sempre stata lì. “Alcuni avevano cercato di dare una parvenza di normalità alla presenza del team Israel-Premier Tech, che aveva già corso il Giro e il Tour senza incidenti. “Lo sport non deve mescolarsi con la politica”, ripetevano come un mantra. Ma dalla quinta tappa in poi, la politica ha bloccato la strada verso la corsa. La politica ha fatto la sua parte a Bilbao e ha impedito a un vincitore di tappa. E poi la politica ha impedito al gruppo di scalare l’Angliru. E la politica ha saltato le recinzioni e, in uno scontro con la Guardia Civil, ha finito per travolgere due poveri ciclisti sulla strada per Lugo. E poi ha costretto ad accorciare la cronometro individuale. E domenica scorsa ha impedito alla Vuelta di arrivare a Madrid e a un uomo di essere incoronato tra gli elogi del tempo e del pubblico. La politica ha fatto tutto questo“.
“E uno di quelli che l’ha capito meglio è stato Vingegaard, il campione. Ancora più campione per il suo atteggiamento e la sua umanità. Una settimana fa, ha dichiarato che le persone che protestavano – la politica non è eterea: ha una voce, un pugno e dei piedi – lo facevano per un motivo. Ha detto che quello che stava succedendo era terribile e che, forse, chi protestava voleva avere voce. Il corridore danese ha vinto attaccando sulle rampe di cemento della Bola del Mundo e, per di più, ha dato una lezione. Più grande di quella dei suoi due Giri.
“Lo sport, anche se sembra dimenticato, è politica. La politica, anche se vogliono che la dimentichiamo, è soprattutto umanità. È il pugno nero di John Carlos a Messico ’68. È lo sguardo di Jesse Owens quando sconfisse Hitler alle Olimpiadi naziste nel 1936. È scendere dalla bicicletta”.