Cobolli: «Ero un tennista nel corpo di un calciatore, vivere il mondo del tennis può mandarti ai matti»

Al CorSera: «Fino ai 14 anni mi consideravo un calciatore al 100%, ma non sarei riuscito a esprimermi con libertà. A Bucarest la mia svolta: mi sono sentito il più forte del mondo».

Cobolli

Roma 12/05/2022 - Internazionali BNL d'Italia / foto Imago/Image Sport nella foto: Flavio Cobolli ONLY ITALY

Il tennista Flavio Cobolli, intervistato dal Corriere della Sera, sarà impegnato nei prossimi giorni agli Us Open.

Cobolli: «Ero un tennista nel corpo di un calciatore»

«Io e papà ci sediamo spesso a tavolino. Parliamo tanto: cosa si può fare di più e di diverso? Ogni settimana che passa mi sento un giocatore migliore, ogni giorno acquisisco un po’ più di consapevolezza. Vedevo sguardi diversi in spogliatoio già prima dei quarti a Wimbledon con Djokovic. Ora mi ascoltano, e io sono più al centro dell’esistenza per cui ho rinunciato al calcio».

Quando si è accesa la lampadina?

«A Bucarest, lo scorso marzo. Il tennis è bello perché ogni lunedì ti dà una nuova opportunità di capovolgimento. Venivo da otto ko di fila, che si spiegano con l’infortunio di fine 2024. Ho avuto un periodo di grande tristezza, che non mi appartiene: io nasco cuor contento, sempre, forse troppo. Non mi capacitavo di come non riuscissi a uscire da quel buco nero. Non ero felice in campo, e la testa nel tennis è tutto. Sono entrato in sfiducia ma a Bucarest, in un attimo, è cambiato tutto. Di colpo mi sono sentito il più forte del mondo. Una partita non ti definisce, non dice chi sei, lo so: però in Romania ho compreso che per essere un top player devo lavorare con continuità. Devo volerlo sempre, ogni giorno. A giorni alterni, non basta».

Lei volle lasciare il calcio per il tennis. Perché?

«Fino ai 14 anni mi sono considerato un calciatore al 100%. Non avevo dubbi. Il calcio è ancora il mio sport preferito. Poi la Roma mi ha messo alle strette: non potevo più fare due sport insieme. Firma il contratto, mi hanno detto. In quel momento mi sono reso conto che a me piaceva il pallone, un po’ meno l’ambiente: mi sentivo solo e diverso, ero un tennista nel corpo di un calciatore. In campo, inoltre, preferisco lottare da solo: le cavolate me le devo intestare tutte io. Sono un freddo, non ho paura di niente ma con il pallone tra i piedi avvertivo più pressione che divertimento. Il tennis invece mi faceva sentire libero. Da calciatore non mi sarei mai espresso con la libertà che ho oggi».

Nessuno, in società o in famiglia, ha provato a farle cambiare idea?

«Ho fatto tutto da solo. Papà tifava per il calcio, mamma per il tennis. Ma non hanno detto una parola, e nessuno mi ha fermato».

È anche per gratitudine che ha scelto suo padre Stefano come coach?

«Fino a 15 anni non ho mai parlato di tennis con papà. Il mio allenatore era Vittorio Magnelli: lui non s’immischiava. Mi sono rivolto a mio padre quando sono stato pronto. Da lì in poi, è successo tutto in modo naturale».

Come si può essere top 30 senza il demone del tennis?

«Il demone aiuta, lo riconosco. Il tennis è un mondo complicato: viaggiamo dieci mesi all’anno, perdiamo più di quanto vinciamo, è una vita che può mandarti ai matti. Io personalmente mi considero normale: mi diverto, mi sento dentro un’eterna vacanza. Provo sempre a dirmi che è tutto bellissimo, perché lo è. Sono un ragazzo fortunato».

Qual è la lezione imparata a Wimbledon?

«Ho capito che i sogni si possono realizzare solo credendo in se stessi, che posso giocarmela con tutti, anche con il leggendario Djokovic, la persona che stimo di più in assoluto nel tennis. Wimbledon è stata un’esperienza di vita meravigliosa, spero di essere all’altezza anche a New York».

L’idolo Totti, il mito Djokovic, l’eroe Bove. Nel suo pantheon, Sinner dove sta?

«Avere un numero uno italiano, dà solo vantaggi: ti senti motivato a dare di più ma puoi lavorare in pace perché tutta l’attenzione è su Jannik. Sinner lo conosco meno bene del mio amico Musetti però lo guardo tanto, cerco di carpire ogni piccola cosa da un campione così grande».

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