Non dimentichiamo la normalità del Napoli dello scudetto, uno scudetto da Grande Lebowski
Soffrendo, di corto muso, con giocatori normali, fottendosene degli XG. Conte ha riportato in auge la virtù dell’aurea mediocritas di Orazio, nella sua nobile originaria accezione

Non dimentichiamo la normalità del Napoli dello scudetto, uno scudetto da Grande Lebowski
Ora che è sempre calciomercato e si sta attrezzando il Napoli 25/26, non scordiamoci già del Napoli dello scudetto, il Napoli del Grande Lebowski. Il Napoli che soffriva, il Corto muso, il Napoli che ha avuto la migliore difesa ma solo il quinto attacco del campionato, il Napoli che segnava l’1-0 e poi arrancava, il Napoli che se ne fotteva degli XG di cui tanto si parla tra i calciofili.
Quel Napoli è piaciuto perché era la misura del Nostro tempo interiore. Quel Napoli se ne sbatteva dell’invenzione, del genio e del sublime. Il Napoli di Ercolino Politano ha snobbato il mito del titanismo. Quello di Amir Rrahmani era l’opposto del dandismo e del superomismo. Il Napoli di Lobotka si è fatto scherno di questa società ipercompetitiva e ansiogena, in cui tutti anelano l’eccezionalità, la rincorsa ai 15 minuti di celebrità. Quel Napoli aveva la faccia da ragioniere di Billy Gilmour, uscito da un film di Ken Loach girato a Bagnoli negli anni 70.
E quel Napoli cosi disegnato, solamente uno come Conte poteva farcelo piacere, solo Lui poteva rendere amabile la medietà, attrattiva la giusta misura, la capacità di non cadere negli eccessi.
Conte, novello latinista, ha riportato in auge la virtù dell’aurea mediocritas di Orazio, nella sua nobile originaria accezione, l’equilibrio tra due opposti, il cielo e la terra. Quel Napoli aveva la faccia di Jeff Bridges del Grande Lebowski e ci ha insegnato a restare distaccati anche quando l’Inter sembrava lanciata, ci ha incitati a trovare il lato positivo in ogni situazione, come Predo e Orsolini hanno dimostrato, ha ignorato le convenzioni sociali della sacralità del calcio.
Nella rosa del Napoli dello scudetto c’erano talenti che non hanno avuto gli altri, più glamour, più tatuati, più dribblomani, più tiki taka. Il talento della disponibilità, della capacità di adattamento agli infortuni e alle cessioni, della comprensione per gli errori, del relativismo. Passata la sbornia dello scudetto, cosa resterà di questo scudetto ai napoletani, tifosi, simpatizzanti o agnostici? Cosa resterà a quelli che del pallone se ne fregano altamente? Agli uni e agli altri, essendo il calcio metafora delle nostre esistenze, resterà la voglia di farci riconoscere l’un l’altro come esseri fragili, limitati, piccoli; resterà la buona abitudine di non giudicare la vita, le vite, quelle in campo e quelle fuori, ma piuttosto la curiosità di trovare degli interstizi in cui collocarci, dei corridoi di rettangolo di gioco in cui infilarci, per fare le diagonali o le ripartenze, resterà il significato del compromesso e la tensione ad abitare il mondo, restando fedeli alla terra, nella “dorata via di mezzo”, sapendo che come Lebowski, “The Dude napoletano sa aspettare”.