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Piatti: «Sogno i sogni di altre persone, dei miei tennisti. Sogno quello che potrebbero diventare»

L’ex coach di Sinner all’Équipe: «Al Milan ho capito che vuol dire allenare. Ho studiato il loro metodo. Ora posso dire di conoscere il tennis»

Piatti: «Sogno i sogni di altre persone, dei miei tennisti. Sogno quello che potrebbero diventare»

Riccardo Piatti, ex coach di Jannik Sinner, è stato intervistato dallÉquipe. L’allenatore di tennis ha parlato del suo ex giocatore e della sua esperienza da allenatore.

Questo mercoledì si sfideranno tRichard Gasquet e Jannik Sinner, due giocatori che hai allenato in momenti diversi della loro carriera. Come li descriveresti?
«Jannik, che ho allenato fino ai vent’anni, è sempre stato estremamente concentrato sul tennis. Vuole arrivare lassù ed è disposto a fare qualsiasi cosa per riuscirci. Del resto con lui, Alcaraz e Rune non c’è motivo di preoccuparsi per il futuro».

Piatti: «Djokovic? Avrei potuto dire senza esitazione che sarebbe diventato numero 1 del mondo»

Hai allenato anche Novak Djokovic quando era adolescente. 
«Ero con Novak quando aveva 18-19 anni. Non ho continuato con lui perché aveva bisogno di tanta attenzione e poi stavo allenando anche Ivan Ljubicic, che aveva 27 anni ed era al suo apice (n. 3 del mondo nel 2006). Mentirei se dicessi che avevo immaginato l’incredibile longevità di “Nole”, ma avrei potuto dire senza esitazione che sarebbe diventato il numero uno al mondo. La sua mentalità era come nessun’altra. Novak è una persona forte, già allora dimostrava la capacità di diventare il migliore. Era “totalmente tennistico”».

Tu e il tennis avete una storia molto lunga. È vero che l’insegnamento è entrato nella tua vita per caso?
«Sì. A 19 anni (fine anni ’70) l’allenatore del circolo dove giocavo si infortunò, così cominciai a dare lezioni e mi resi  conto che non conoscevo il gioco. Cominciai a fare tutto il possibile per capirlo. I miei genitori avrebbero preferito vedermi diventare avvocato o rilevare l’attività di tessitura di mio padre, ma ho deciso di andare a Roma, alla scuola nazionale allenatori. Da lì sono iniziati i miei problemi (ride)… Per insegnare bene, prima dovevo avere conoscenza».

Quanto ci hai messo?
«Molto. Una ventina di anni fa andai a vedere come funzionavano le cose al Milan, ero amico di uno dei dirigenti. Ho scoperto il loro metodo, molto completo, basato su dati precisi e quantificati, che comprendeva tutti gli aspetti di supporto all’atleta (tecnico, fisico, fisioterapico, ecc.). Lì ho imparato a distinguere il metodo – ciò che insegniamo – dal modello – il modo in cui tutti lavorano insieme per il giocatore».

Come descriveresti la tua filosofia di coaching?
«Il tennis è soprattutto un gioco. Mi piace dare ai giovani le giuste basi, per permettergli di far crescere il giocatore che è in loro. E, soprattutto, cerco di educarli».

Oggi, ha imparato tutti gli aspetti del suo lavoro?
«Sono orgoglioso di dire a me stesso che, sì, ora, a quasi 65 anni, conosco il tennis. Mi sento abbastanza a mio agio in un campo da poter lavorare con chiunque. E a volte, guardo un giocatore evolversi, e comincio a sognare. In realtà, la mia vita sta sognando i sogni di altre persone. Sognando quello che potrebbero diventare».

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