Sara Simeoni: «Ad Atene imparai che quando non porti a casa la medaglia d’oro a stento ti salutano» 

Al CorSera: «Gli allenatori vedevano le donne atlete come una perdita di tempo, ci caricavano di fatica fisica assurda convinti che avremmo mollato».

sara simeoni

Il Corriere della Sera intervista Sara Simeoni, campionessa olimpica di salto in alto nel 1980 a Mosca. Racconta di quando era bambina: nessuno pensava che sarebbe diventata un’atleta.

«Di certo nessuno immaginava che un giorno sarei diventata un’atleta. Lo sport, per una donna nata nel 1953, al
massimo poteva essere un passatempo. E da coltivare con moderazione».

La Simeoni continua:

«All’epoca non c’era tutta questa ricerca scientifica intorno allo sport. Spesso saltavi e basta, correvi e basta. Oggi il mio mal di schiena perenne è dovuto anche al fatto che alcuni movimenti forse erano sbagliati ma non lo sapevi. Tutto era rudimentale, pensi che quando veniva il ciclo si faceva fatica anche a parlarne, lo chiamavano “il carattere delle donne”, era una specie di incidente increscioso mensile».

Nella sua autobiografia, «Una vita in alto», la Simeoni racconta che lo stile ventrale, con la pancia in sotto, era quello dominante. Le viene chiesto se si trovava bene.

«No, mi faceva paura, io preferivo lo stile a forbice. Gli allenatori poi vedevano le donne atlete come una perdita di tempo e allora ci caricavano di fatica fisica assurda, convinti che avremmo mollato dopo un po’ per metterci a
ricamare e a far da mangiare».

Brescia, 4 agosto 1978. La Simeoni:

«Le rispondo con una parola magica: due-zero-uno, il nuovo record del mondo nel salto in alto femminile, quei due metri che cambiarono la mia vita. Cominciò anche la pressione mediatica: pensi che mi chiedevano di inventarmi qualche love story così, per farmi pubblicità. Io strabuzzavo gli occhi: e se poi nelle interviste sbaglio nome perché mi confondo?, dicevo. Follia. Io non riuscivo a saltare senza la solida certezza della mia famiglia, di mio marito accanto a me. Non so come facciano certe atlete di oggi, piene di tormenti sentimentali. Quando saltavo, non saltavano solo le gambe e il dorso, ma saltava Sara, con la sua vita, i suoi affetti, le sue ansie. In quell’anno ho fatto il record del mondo per due volte. Le riprese della gara di Brescia mi arrivarono, pensi, trent’anni dopo, girate da un trentino sugli spalti».

Poi ci fu l’oro, a Mosca, nel 1980.

«Quella Olimpiade per me voleva dire una cosa sola: oro. Ero determinata ma spaventata. Una strizza che non le dico, forse perché per la prima volta chiedevo tanto a me stessa. Quando arrivò l’oro pensai che da qualche parte ero arrivata e finalmente mi convinsi che tutti quei sacrifici erano valsi la pena. Però poi, ad Atene, mi feci male e imparai, con amarezza, che quando vinci ricevi grandi telegrammi e la volta che non porti la medaglia d’oro a momenti manco ti salutano».

Oggi si guarisce in fretta dagli infortuni? Simeoni:

«Noi perdevamo mesi prima di rimetterci completamente in sesto per traumi da cui oggi si guarirebbe in qualche settimana. Però a Los Angeles, nel 1984 portai a casa un bell’argento. Ma poi dissi addio alle gare, lo feci in Sardegna, quasi sottovoce, d’istinto. E fu allora che imparai che lo sport non è una bella favola dove tutti si vogliono bene. La Federazione mi chiamò per collaborare, divenni responsabile del “Club Italia”, un laboratorio dove aiutavamo i ragazzi e le ragazze più promettenti. Poi, però, un giorno mi misero da parte».

 

 

Correlate