Su Repubblica alcuni stralci della sua autobiografia: «Sportweek mi trasformò in una femme fatale sessualizzando il mio corpo. Una violenza che mi umiliava»

Su La Repubblica un estratto di “Oro”, autobiografia di Federica Pellegrini in uscita per La Nave di Teseo. Racconta i suoi problemi di bulimia, quando aveva 17 anni. Tutto parte dal racconto dei Mondiali di Montréal del luglio 2005. La Pellegrini si presentò da favorita, racconta che aveva investito tutto su quella gara, voleva solo l’oro, sarebbe stato il suo risarcimento per “un anno schifoso”. Invece fu argento: vince la francese Solenne Figuès. Nell’intervista in tv dopo la gara, la Pellegrini scoppiò a piangere.
Fu sua madre a capire che c’era qualcosa che non andava.
“Tutti mi attaccano perché ho pianto per un argento mondiale invece di essere felice. Nessuno capisce. Ma come avrebbero potuto se neppure io capivo? Mi dibattevo come un pesce preso all’amo, avrei voluto soltanto scomparire. Invece ero lì, davanti agli occhi di tutti, incapace di gestire lo stress. Avevo diciassette anni, che è già abbastanza un casino di per sé anche se non devi nuotare in una gara mondiale. Non provavo alcuna indulgenza nei miei confronti. Ero rigida, non vedevo via d’uscita. Nelle foto ho gli occhi completamente spenti. E sono gonfia, brufolosa, i capelli lunghi che non ho più avuto e neanche mi piacevano. Da qualche mese, poco dopo essermi trasferita a Milano, avevo cominciato a ingozzarmi di cibo. Ero capace di far fuori chili di gelato seguiti da svariate tazze di cereali una dietro l’altra. Una volta mia mamma era venuta a trovarmi e se n’era accorta. Le avevo detto ho fame, facciamo merenda? E avevo divorato due buste di prosciutto crudo e tre pacchetti di cracker. Lei mi aveva guardato perplessa. La sera, dopo aver mangiato tutto quello che potevo durante il giorno, vomitavo. Lo facevo sistematicamente, ogni sera prima di andare a dormire, quando il ricordo di tutto il cibo ingurgitato aumentava il senso di colpa. Vomitare era un po’ come ripulirsi la coscienza e anche la mia maniera di metabolizzare il dolore. Si chiama bulimia ma io non lo sapevo. La bulimia per me non era il problema, era la soluzione. Il mio modo di dimagrire senza sacrifici mangiando tutto quello che volevo”.
Più si vedeva grassa e più mangiava.
“L’unica cosa che potevo fare era andare avanti così. Alla fine qualcuno se ne sarebbe accorto e mi avrebbe fermato, pensava una parte di me. E nel frattempo continuavo a mangiare”.
La Pellegrini racconta il servizio fotografico organizzato da SportWeek: fotografie agli atleti fuori dal loro ambiente naturale, trasformati in animali, maschere, modelli. Per lei il settimanale aveva immaginato una maschera veneziana.
“Mi truccano, con la biacca sul viso e la bocca a cuore. Mi infilano una parrucca bionda, i gioielli, i tacchi”.
Una seduta fotografica durata giorni, “estenuante” e in cui lei si trovava “in costante imbarazzo”, con la voglia soltanto di scappare. Poi, la presentazione.
“Le pose languide, la seduzione, vorrei solo sprofondare, sparire, morire. E invece tutti mi guardano, è pieno di gente che vede quella che a me sembra una povera ragazzina grassa e brufolosa, truccata come una puttana, mezza nuda. Io sono un’atleta, perché mi hanno trasformato in una femme fatale? Ho solo diciassette anni, sono minorenne: a prescindere dalla mia condizione fisica, quella sessualizzazione del mio corpo è una violenza, mi umilia ed è assolutamente fuori luogo”.
Si vedeva solo come “un ammasso di ciccia“.
“In quel caso avevo quindi ragione: dovevo vomitare tutto. La mia medicina per smettere di essere la donna che gli
altri vedevano e che non ero io”.
Un racconto intimo, il suo, che prosegue:
“Quello che invece mi è successo a diciassette anni a Milano era un’altra cosa. Era saltato tutto. E in più il mio corpo era diventato pubblico. Gli atleti hanno corpi fuori standard, perché il loro obiettivo non è la bellezza ma la potenza. E ogni sport pretende una disposizione di muscoli, leve, vuoti e pieni diversa. Nel nuoto vengono fuori soprattutto le spalle. E io fin da piccola avevo queste spalle larghe, robuste, che mi imbarazzavano se esposte in abiti eleganti. Cercavo di evitare canottiere, top e qualsiasi cosa le mettesse in evidenza. Crescendo ci ho fatto pace. Ho imparato a vestirmi in maniera da far diventare le mie spalle un pregio e non un difetto. Ma non erano le spalle: in quegli anni io mi vedevo un mostro. Dismorfia. È la malattia per cui non riesci a vederti come sei davvero. Lo specchio riflette l’immagine prodotta dal tuo inconscio, dalle tue ossessioni. Quella che vedi non sei tu, ma la proiezione della tua paura, della tua insicurezza”.