A Repubblica: «L’impresa del Marocco è una botta di autostima. I commenti dei festeggiamenti dimostrano che nel Paese c’è ancora razzismo».
La Repubblica intervista la cantante Malika Ayane. Ha madre italiana e padre marocchino. E’ cresciuta a Milano. Il tema è quello del Marocco in semifinale al Mondiale in Qatar.
«Il successo del Marocco e della Croazia, il fatto che le grandi squadre stiano cadendo, fa riflettere. La storia si ribalta».
Malika Ayane racconta la sua infanzia da marocchina in Italia.
«Non porto rancore. Ho 38 anni, appartengo alla prima parte di generazione di marocchini nati a Milano. Da allora ne sono nati di bambini in Italia, e ancora non sono riusciti ad avere la cittadinanza. Appartenere a un popolo che sta vincendo e avere un riconoscimento positivo, è una bella soddisfazione per chi si è trovato ad affrontare un percorso faticosissimo».
C’è ancora il razzismo?
«Il razzismo è anche quello sottile che non percepiamo come tale. “L’ho preso dai marocchini in spiaggia”, è una frase entrata nel linguaggio comune, come “È marocchino, ma è perbene”. Sento ancora genitori a scuola, che dicono: “…Poi ha un’amica straniera”. Allora mi metto lì, tignosa: “Tua figlia è a casa con la sua amica che si puo chiamare in qualunque modo. Sono amiche”. Ci si ferma troppo a riflettere sul fatto che essere marocchini, o di altre parti del mondo, sia in qualche modo un deficit».
E quindi per pareggiare bisogna essere fenomeni? Malika Ayane risponde:
«Sì, essere un cantante famoso o vincere i Mondiali. Perché, diciamo la verità, il calcio fa sentire tutti rappresentati. Però l’impresa del Marocco servirà a tanti, è una botta di autostima. Mi sono resa conto dai commenti dei festeggiamenti, che nel Paese c’è ancora razzismo».
A Milano si è sentita accolta?
«Quando vai nelle scuole del centro diventi quasi attraente per le tue difficoltà. Mentre quando ero piccola, i bambini, si sa, sono cattivissimi, i peggiori erano quelli che avevano smesso di essere chiamati “terroni” due giorni prima».