A Sette: «Vorrei spendere, ma non ci riesco. I miei mi hanno insegnato a essere misurato. Mi sono confezionato da solo pure le tende di casa».
Il Corriere della Sera Sette intervista Marco Mengoni. Racconta di aver sofferto di dismorfismo, un disturbo che spinge chi ne soffre a vedere i propri difetti fisici molto più grandi di quanto siano in realtà o vederne anche di inesistenti.
«È un atteggiamento figlio della mia storia psicologica… Tutta colpa del dismorfismo, un problema di famiglia. Sono cresciuto in una famiglia matriarcale. Nonna Iolanda è rimasta vedova presto e ha fatto la mamma, la nonna e la manager del negozio di famiglia a Ronciglione. Ci teneva all’apparenza, sempre precisa nel trucco e nei capelli, quasi caricaturale. Lei, mamma e zia erano donne bellissime che però nell’intimità soffrivano vedendosi piene di difetti. Si buttavano giù. Quante volte le ho sentite dire “quanto so’ brutta”. Mamma ha delle bellissime gambe e non si è mai
messa la gonna, per vergogna…».
Anche lui ha dovuto fare i conti con questo disturbo.
«Da ragazzino non pensavo proprio di poter avere appeal. Pesavo quei 106 chili, avevo i capelli lunghi che mi coprivano gli occhi quasi a non voler far individuare il mio stato d’animo. Più avanti ho fatto fatica a capire il confine fra bellezza oggettiva e soggettiva proprio per il dismorfismo, che è una patologia, e così ho iniziato a lavorare su me stesso. È stato difficile accettare che gli altri mi vedessero bello e anche nel mio percorso di analisi e terapia ci siamo incagliati su questo. Alla fine fa piacere sentirselo dire, però penso che la bellezza sia quel condimento in più in un piatto che deve essere già buono».
«ho fatto fatica a capire il confine fra bellezza oggettiva e soggettiva proprio per il dismorfismo, che è una patologia, e così ho iniziato a lavorare su me stesso. È stato difficile accettare che gli altri mi vedessero bello e anche nel mio percorso di analisi e terapia ci siamo incagliati su questo».
La musica l’ha aiutata?
«All’inizio della carriera non capivo cosa vedessero e cosa capissero gli altri di me. Dopo X Factor in molti pensavano che sarei stato il classico personaggio uscito da un talent che si sarebbe bruciato subito. Non capivo se c’era qualcosa che volevo veramente condividere con gli altri. Ho scoperto che la musica è un mezzo potente, che mi ha aiutato ad alleviare tanti momenti di una vita non facile».
Quali?
«Non sono cose di cui amo parlare, ma non sono mai riuscito a dire “ecco, adesso sono fermo e tranquillo”. Ci sono state esperienze che ho vissuto con un trasporto emotivo importante, sono stato punzecchiato dalla vita e dal karma. Certe esperienze non le vuoi vivere, o vuoi viverle in età più matura… Ho perso delle persone e ho passato mesi a non guardare più i messaggi e le foto per non avere ricordi. Mi ha aiutato dedicare un giorno alla settimana a me stesso,
ai miei pensieri e alla mia emotività. Lo faccio con una terapista. E poi mi dedico a respirazione, meditazione, mindfulness».
Il primo ricordo di famiglia?
«Mi ricordo di mio nonno paterno, Sestilio, e della malinconia del Natale. Sono nato il 25 dicembre e non ho mai avuto la festa di compleanno. Da bambino avevo un po’ di invidia per gli altri amichetti… Adesso festeggio quando mi pare, invito gli amici e cucino io».
La più grande cavolata che ha fatto quando invece ha iniziato a guadagnare bene?
«Nonno e papà mi hanno insegnato a essere misurato. Vorrei spendere, ma non riesco. Mia cugina, che segue i miei conti, mi dice che ogni tanto dovrei anche portarle qualche fattura. Il massimo è la spesa per colori a olio particolari o pennelli. A proposito di spese non fatte, mi sono confezionato pure le tende di casa con una macchina da cucire. Nonna era sarta…»
«Nonno e papà mi hanno insegnato a essere misurato. Vorrei spendere, ma non riesco. Mia cugina, che segue i miei conti, mi dice che ogni tanto dovrei anche portarle qualche fattura»
Sua cugina le segue i conti. Ha scelto una persona di fiducia perché in passato ha incontrato il Gatto e la Volpe?
«Forse ero io troppo Pinocchio. Dovresti controllare tutti i fogli che firmi e all’inizio non mi interessavo,
sbagliando, di questi lati del mestiere».
Si è iscritto all’università. Psicologia.
«Ho avuto problemi a gestire le fasi post tour: tornavo a casa, felice per qualche settimana e poi avevo un crollo. Mi sentivo perso e scappavo per un viaggio. A un certo punto avevo preso casa a New York, il volo avrebbe dovuto essere il 10 marzo 2020 e tre giorni prima hanno chiuso l’Italia… Avevo bisogno di qualcosa per tenere allenato il cervello e la paura degli esami che ricordavo dall’unico anno che ho frequentato in passato era la sola che mi dava l’ansia del pre-concerto. Una tensione che mi fa sentire che esisto».
Come vanno gli esami?
«Psicologia 1 è andato molto bene, anche Antropologia che mi ha portato su percorsi che in parte ho riversato nelle canzoni di Pelle. Male, invece, Inglese. Bocciato. Ci sono andato un po’ da sbruffone, pensando che sapendolo parlare bene l’avrei passato facilmente. Allo scritto invece sono caduto sulle quattro forme di condizionale. E anche su altre cose in realtà».
Porta un anello con un’effigie. Chi rappresenta?
«San Gennaro, regalo di un amico napoletano. Lui dice che porta fortuna. Io dico che male non fa… Non sono mai stato superstizioso, al limite mi diverte stare attento a passare il sale appoggiandolo sul tavolo».
«Porto un anello con l’effige di San Gennaro, regalo di un amico napoletano. Lui dice che porta fortuna. Io dico che male non fa…»
Quest’estate il debutto a San Siro e all’Olimpico, ora il tour sold out nei palazzetti e ancora stadi la prossima estate: emozioni e paure diverse?
«I palazzetti mi hanno fatto compagnia per anni, vedi più occhi, la reazione è immediata. Gli stadi sono un’onda che ti sposta ma non li ho ancora metabolizzati: non ho avuto paura, ma so solo che ho buttato nel cesso la mia professionalità, non sono riuscito a controllare l’emotività davanti a questo muro di energia, non riuscivo a proferire parola quando dovevo parlare. Non so fingere».