A Sportweek: «So quello che devo fare e non ho nessun problema a soffrire. Se una cosa ha senso, la faccio. Sono arrivato fin qua perché sono così»
Su Sportweek, settimanale della Gazzetta dello Sport, una lunga intervista al difensore del Milan e della Nazionale danese, Simon Kjaer. Si definisce molto riservato nella vita.
«Non mi piace parlare di me. E comunque non ho molto da raccontare: sono sempre stato una persona riservata, normale. Mi piace il mio lavoro e stare a casa con mia moglie e i miei figli. Porto i bambini a scuola, vado a Milanello e ci rimango finché non è ora di andare a riprenderli. Un giorno dovrò pensare a un altro mestiere, ma oggi non faccio molto altro. Non credo di essere così interessante».
Racconta il motivo per cui, dopo l’infortunio al crociato del ginocchio sinistro del primo dicembre di un anno fa, ha
deciso di non tagliare più i capelli finché non fosse tornato in campo.
«Non avevo mai sofferto un infortunio tanto grave e per la prima volta nella mia carriera dovevo affrontare un periodo in cui avrei lavorato da solo, lontano dal resto del gruppo. Mia madre mi disse: fai finta di essere un eremita, uno di quelli che vivono nella foresta, separati da tutto e tutti. Io mi sentivo proprio così. Sì, la società mi stava vicino, i compagni mi scrivevano incoraggiandomi, ma alla fine ero io a dovermi alzare alle 8 del mattino tutti i giorni per lavorare fino alle 8 di sera: terapia, rieducazione, da solo insieme al fisioterapista. Allora mi sono detto, se sembro un eremita, che sia così: taglierò la barba solo quando tornerò a lavorare con la squadra».
E’ rientrato con il Marsiglia, una settimana fa, ma non può spingere troppo, per non rischiare di farsi male.
«Se avessi avuto 24 o 26 anni sarebbe stato un altro discorso, ma non ho le capacità di recupero di allora».
L’infortunio lo ha cambiato-
«Sottoporsi ogni giorno a esercizi pesanti e noiosi perché sai che ti serve farli, non è facile. Fossi stato più giovane, non so se ci sarei riuscito. Oggi mi rendo conto di avere l’esperienza per capire che se ti chiedono dieci ripetizioni devi farne una in più e non in meno».
Ti sei scoperto guerriero o hai sempre avuto uno spirito così?
«Negli ultimi cinque anni, ma potrebbero essere qualcuno in più, ho sempre avuto la stessa mentalità, che mi sono costruito pian piano. Sono arrivato a un punto in cui so quello che devo fare e non ho nessun problema a soffrire. Se una cosa ha senso, la faccio. Ma deve avere senso. Se uno mi dice: fai dieci allunghi, io chiedo: perché? Dammi una buona ragione e li faccio, anche se sto morendo».
Sette anni in Italia, quattro in Francia, due in Germania, Spagna e Turchia: cosa è rimasto della Danimarca dentro di te?
«La base: puntualità e lo stesso rispetto per tutti, dalla donna delle pulizie al presidente. Se un danese ti dice: siamo qua alle due, vuol dire che siamo qua alle due, non alle due e dieci. In Italia dipende da dove sei: a Milano è un po’ meglio che a Palermo. Lì le due diventano anche le due e mezza… Ma in Sicilia sono stato benissimo, ho aperto gli occhi sul mondo».
Pensando allo scudetto, cosa ti ha rubato l’infortunio?
«Quando mi sono fatto male ho staccato la spina dal calcio per quattro mesi. Non guardavo neanche le partite. Ero in contatto con Pioli e i compagni, nient’altro. Non andavo a Milanello perché non avevo niente da dire e niente da dare. Sono tornato più o meno a dieci partite dalla fine perché potevo ricominciare a fare qualche lavoro con la squadra e restituire qualcosa di me. I ragazzi mi hanno accolto regalandomi la maglia col mio nome firmata da tutti loro. Il Milan è davvero una famiglia e io voglio bene a tutti. Cosa mi ha rubato l’infortunio? Io so di aver dato una grande mano a vincere questo scudetto, perché è stata la conclusione di un percorso di crescita, tecnica e mentale, iniziato due anni e mezzo fa, quando sono arrivato al Milan. L’anno scorso ho giocato solo 11 partite, ma lo scudetto lo sento mio. Lo abbiamo vinto tutti insieme».
Come definiresti te stesso, in tre aggettivi?
«Professionista. Affidabile, al cento per cento. Ottimista».
Non c’è niente che cambierebbe.
«No. Posso sempre imparare, smetterò col calcio quando smetterò di crescere. Non sono perfetto, però sono disposto a correggere i miei errori. Ma sono come sono, e come sono mi ha permesso di arrivare fin qua. Mia moglie ogni tanto mi ricorda che per me è tutto bianco o nero, anche coi figli. Quando dico no, è no. Lei invece ha molti colori. Rispetto a mio padre, che era ancora più netto di me, ogni tanto ho qualche sfumatura di grigio, ma poco. Non mi piace il grigio».
Che tipo di leader è Kjaer?
«In campo posso anche essere un po’ cattivo con le parole, ma fuori cerco di capire come aiutare un giovane. C’è quello che ha bisogno di una carezza e quello con cui puoi essere più duro. Noi calciatori siamo strani… Mi sono serviti i cinque anni da capitano della mia nazionale».
In un confronto tra te e Ibra, chi ha l’ultima parola?
«Se io penso di vincere una discussione con Ibra, resto deluso. Bisogna capire chi si ha di fronte, e lui nel suo genere è unico. Ma Zlatan apprezza chi non è d’accordo con la sua opinione e lo dice. Poi, alla fine decide lui e questo non può cambiare».
Quando hai soccorso Eriksen a terra, svenuto, hai agito per istinto o ragionando?
«In casi come quello non puoi mai pensare prima di agire. Sorpreso? Spero solo che avrei agito allo stesso modo se, invece che soccorrere un compagno in una partita dell’Europeo davanti a milioni di spettatori tra stadio e tv, mi fossi trovato per strada alle prese con uno sconosciuto».