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Gabriele Muccino: «Non vedo mio fratello dal 2007, con lui ho vissuto un lutto. Mi ha scarnificato»

Al CorSera: «Ad un certo punto ti rendi conto che quella persona non la vuoi più incontrare, perché non la stimi e non la conosci più» 

Gabriele Muccino: «Non vedo mio fratello dal 2007, con lui ho vissuto un lutto. Mi ha scarnificato»

Il Corriere della Sera intervista Gabriele Muccino. Ha vinto da poco il Nastro d’Argento, ex aequo con «Le fate ignoranti», con la sua «A casa tutti bene», di cui sta girando la seconda stagione. Racconta che da ragazzo era balbuziente.

«Balbettavo — molto più di oggi — e questa cosa distraeva: che si trattasse della persona che volevo affascinare o di una che volevo anche solo semplicemente intrattenere».

Il film che lo ha consacrato al grande pubblico è stato «L’ultimo bacio», con Stefano Accorsi come protagonista.

«Quel personaggio ero io, completamente. Dopo il mio primo film Ecco fatto e, soprattutto, dopo Come te nessuno mai, ero io a ritrovarmi in una storia che richiedeva delle responsabilità, improvvisamente circondato da tante Martina Stella. Quello che però non sapevo era che molte altre persone fossero simili a me. La mia unicità non era così straordinaria: ero solo più propenso a raccontare in maniera scarnificata i miei sentimenti e le mie zone d’ombra. Quel film scatenava un’esplosione emotiva nello spettatore che spesso litigava con il partner con cui era andato al cinema, perché scoprivi che uno la vedeva come Accorsi e l’altro come Mezzogiorno… ci sono persone che dopo averlo visto si sono lasciate e ancora oggi mi ringraziano della fuga che hanno compiuto. Per quanto mi riguarda, L’Ultimo bacio fu una sorta di tsunami».

Uno tsunami che trasformava un ex ragazzo introverso in una celebrità.

«Ero cresciuto in solitudine e stavo bene da solo, ma quando ho voluto cercare di misurarmi con il resto della società ho sentito che avevo delle lacune molto grandi, che non avevo idea di come riempire. A 14 anni non sapevo nemmeno chi fossero i Beatles: questo per dire quanto mi fossi alienato da solo da quella che era la realtà. Il cinema mi ha dato la possibilità di esistere, ovvero di portare quello che io sono alla fruizione degli altri. Il tasto più dolente della mia adolescenza era non riuscire a comunicare me stesso: mi impauriva, mi faceva sentire mediocre e profondamente irrisolto. Ho cercato di risolvermi e raccontarmi attraverso il cinema».

È sempre stato così?

«È un meccanismo che si è ripetuto film dopo film. E sono riuscito a raccontare tantissimo di me, anche i traumi, i dispiaceri, i grandi disincanti, le delusioni. Ho usato il cinema come strumento per sciogliere quella che sarebbe stata un’esistenza implosa. Ho sfruttato la drammaturgia per dare ordine al caos della vita».

Per molti anni ha vissuto e lavorato in America. Racconta i lati negativi dell’esperienza.

«Ho patito moltissimo l’assenza del convivio, di quel momento in cui conosci davvero le persone e ti lasci andare. Lì, la vita che ho condotto per 12 anni era guidata dal business: incontravi solo chi poteva darti qualcosa, che ti vedeva solo se tu potevi essere interessante da un punto di vista affaristico. Al di fuori di questo, l’amicizia con assenza di interessi in America non l’ho mai conosciuta. Così, quando mi sono ritrovato a casa di Giovanni Veronesi, a Roma, in una serata super allegra, in cui eravamo tutti con le lacrime al viso per le risate, mi sono accorto — ridendo così tanto — che erano anni che non lo facevo. In quel momento ho capito che se era vero, come era vero, che in America avevo smesso di ridere, allora non era il posto dove potevo più stare e sono venuto via. Mi stava uccidendo l’anima, mi stava uccidendo anche la voglia di vivere».

Ha un rapporto molto travagliato con il fratello Silvio. Ne parla.

«Con lui ho vissuto un lutto, un lutto di una persona vivente, che non vedo dal 2007. È stata una esperienza per me aberrante da un punto di vista psicologico: mi ha scarnificato. Rimane una delle cose più incomprensibili, ingiustificabili e forse anche imperdonabili. A un certo punto quando questo lutto si è elaborato, quando ho smesso di soffrire, sono passati ormai 15 anni. Lì ti rendi conto che quella persona non la vuoi più incontrare, non hai più nulla da raccontare perché fondamentalmente non la stimi, non la ammiri e non la conosci più. Se mancano questi tre elementi, il resto cosa è? Forma?».

Non c’è la possibilità di un chiarimento?

«Quando tuo fratello scompare senza neanche dirti perché per una vita intera, il corpo soffre, soffri psicologicamente, ti svegli nel cuore della notte come se ti mancasse l’aria, perché hai voglia di tuo fratello. Era un pezzo di me. Mi ha tolto un parte enorme della mia vita e ora quella parte lì se ne è andata. La nostra difesa naturale nell’elaborazione delle sofferenze fa in modo che si crei uno spessore sulla cicatrice tale da far diventare quella cicatrice insensibile. È lì, la vedi ma è talmente spessa la carne che la riveste che siamo diventati insensibili, a dispetto di quello che vorremmo. Ma è fisiologico difendersi da un dolore così penetrante».

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