Alex Bellini: «Sono caduto in un vulcano, attraversato l’Alaska a piedi. Se si smette di sognare, si muore» 

L'esploratore al CorSera: «Ho paura e temo la morte. Bisogna avere anche il coraggio di fermarsi. una volta lo feci perché mia moglie mi disse che aveva brutte sensazioni»

alex bellini

Il Corriere della Sera intervista l’esploratore Alex Bellini. Nato ad Aprica, in provincia di Sondrio, 43 anni fa, è abituato alle “missioni impossibili”. Nel 2001 ha corso la Marathon des Sables, 250 chilometri nel Sahara. Tra il 2002 e il 2003 ha attraversato a piedi l’Alaska per 2.000 chilometri. Nel 2005, dopo due tentativi falliti, è riuscito a completare la traversata in solitaria a remi da Genova a Fortaleza, in Brasile. Sempre in solitaria, nel 2008, ha attraversato l’oceano Pacifico, dal Perù all’Australia, fermandosi a 65 miglia dall’arrivo. Nel 2011 ha corso da Los Angeles a New York in 70 giorni.

«Non è voglia di estremo, è il desiderio di conoscere e di conoscersi», dice. E spiega che le imprese impossibili appagano l’ego.

«Nel momento in cui realizzi qualcosa di apparentemente impossibile, l’ego ne gode. L’appagamento matura quando trovi la forza di saltare nel cerchio di fuoco. Spesso mi sono scoraggiato, ho pianto, mi sono incavolato con me stesso per aver seguito questa passione. Ma se qualcosa di negativo si trasforma in una nuova speranza, ecco quello è un appagamento che genera coraggio per la vita».

Nella traversata a remi del Pacifico s’è fermato a 65 miglia dall’Australia.

«Mi sarei sentito più sfigato se avessi fatto retromarcia il giorno dopo la partenza perché travolto dai dubbi. Mollare in vista del traguardo ha qualcosa di romantico: le storie grandiose hanno epiloghi imprevedibili. Avevo superato l’inferno, sentivo di farcela. Ma mi sbagliavo: le condizioni erano diventate pericolose. Fermarmi è stato un atto di anti-coraggio che si è trasformato nel coraggio di dire basta».

Lei dimostra che tutto è possibile?

«In generale dico che tutto ciò che pensiamo è possibile».

La paura non gli è sconosciuta, anzi.

«Ho paura e temo la morte: esorcizzo entrambe facendo l’esploratore. Prima della morte fisica c’è comunque quella spirituale: si muore se si smette di sognare. Quando ho rischiato di più? In Islanda attraversando il Vatnajökull, il più grande ghiacciaio d’Europa. C’era il “white out”: vento, nebbia, polvere di neve che impediva di vedere bene. Mi avvicinai troppo alla bocca del vulcano, scivolai nel cratere. Cadendo, pensavo che stavo morendo da cretino. Invece atterrai su un manto morbido e riuscii a risalire. Con me c’era un fotografo, si era fermato in tempo: quando mi vide pensò di avere le allucinazioni».

Parla di sua moglie, che più di una volta lo ha salvato.

«Francesca cura sponsor e team di supporto, la scelta di partire è sempre di entrambi. Ma ultimamente, mentre stavo per raggiungere il Niger, mi ha detto: ho cattive sensazioni. Poiché in passato aveva visto giusto, sono rimasto a casa».

Come fa a superare se stesso?

«Tanti me lo chiedono. La risposta è: con la necessità di colmare uno spazio nel cuore».

Sul suo rapporto con Dio:

«Ho un conto in sospeso. Ho perso mia mamma nel 1999, avevo 21 anni: ho subìto un torto. In mezzo agli oceani non mi sono mai sentito così vicino a lei: mi guidava tra onde, difficoltà, cadute. Rifiuto l’Assoluto, però quando non c’è nulla in cui sperare è d’aiuto credere che Dio esista».

Ogni sconfitta genera una ripartenza o resta una sconfitta?

«Viktor Frankl, sopravvissuto ai lager nazisti e diventato psichiatra, sosteneva che nella prigionia gli avevano levato perfino l’identità. Ma non potevano togliergli l’ultima delle libertà: poter scegliere l’atteggiamento in ogni situazione. Quindi non sono le cose che ci capitano a determinare il successo o il fallimento, ma la nostra interpretazione di tali momenti. Una ripartenza è credibile a patto che ci sia la capacità di riconoscere in noi questa grande libertà umana».

 

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