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«Sono stata a lungo povera. Una giornalista mi chiese se vivessi in modo modesto per motivi politici» 

Laura Morante al CorSera: «Mia madre disprezzava la scuola. Quando si accorgeva che non ci andavo diceva: hai fatto bene. Una vita senza sconfitte non è interessante» 

«Sono stata a lungo povera. Una giornalista mi chiese se vivessi in modo modesto per motivi politici» 

Sul Corriere della Sera una lunga intervista a Laura Morante, nipote della scrittrice Elsa e di Alberto Moravia. Attrice, doppiatrice, regista, ha esordito giovanissima a teatro con Carmelo Bene e al cinema con Giuseppe Bertolucci. Ha lavorato con Bernardo Bertolucci, Nanni Moretti, Monicelli, Salvatores, Placido, Avati, Virzì, Luchetti.

Racconta l’importanza dei fallimenti, nella vita.

«Il tema è far tesoro dei fallimenti. Una cosa che dico sempre ai figli è: nessun fallimento, negli anni, è un fatto tragico, invece, le cose che non avete osato fare vi perseguiteranno per sempre. Le sconfitte sono anche divertenti, una vita senza sconfitte è una vita senza interesse».

Un suo fallimento è stato non iscriversi al Liceo Classico per paura di non superare l’esame di ammissione di latino.

«Quella mattina, mia madre mi chiede “dove vai?”. Eravamo tanti figli, otto, non è che i genitori seguissero tutto. Lei, mezz’addormentata, mi fa: declinami rosa rosae. Sbagliai e non ebbi il coraggio di dare l’esame».

Da ragazza sognava di fare la ballerina. Infatti diventò professionista, danza contemporanea. Fu così che Carmelo Bene la scoprì.

«I bracci di ferro lo divertivano. Apposta non ci pagava. Diceva che già lavorare con lui era un onore. Io bussavo al suo camerino, sventolavo il libretto dei lavoratori e cantavo “el pueblo unido jamás será vencido”. Gli feci anche una vertenza sindacale, la vinsi e lui mi riprese l’anno dopo».

Descrive se stessa ragazzina come “patologicamente timida”.

«Ero patologicamente timida. Per entrare in un negozio, mi veniva il batticuore. Lasciare casa e Grosseto, da sola, a 17 anni fu una cosa gigantesca, ero chiusa, non avevo amici, forse, me ne sono andata perché sapevo che, se non l’avessi fatto presto, non l’avrei fatto più».

Sull’educazione ricevuta dai genitori:

«Papà e mamma erano l’opposto uno dell’altro: lui aveva senso del dovere, appassionato del lavoro di scrittore e giornalista, amante dei libri; lei aveva una scala di valori rovesciata, la lotta per la vita non la interessava, disprezzava la scuola in modo assoluto. Se si accorgeva che non ci eri andata diceva: hai fatto bene».

Sul rapporto con la zia Elsa:

«Sono stata la sua prediletta. Quando avevo undici o dodici anni mi volle a Roma con lei, poi mi rimandò indietro, perché come molti ragazzini ero sonnambula e la notte camminavo e parlavo per casa. Tempo dopo, decise di chiudere con la mia famiglia. Litigava sempre con papà, avevano discussioni di ore su cose ideologiche, gusti letterari. Tipo, a un certo punto, a lei non piaceva Kafka di cui papà era grande ammiratore. Insomma, piano piano, lei escluse quasi tutti i membri della famiglia, tranne mio fratello Daniele».

Alberto Moravia era diverso:

«Gli piaceva parlare coi giovani, era curioso e di accesso più facile rispetto a Elsa. Ci siamo frequentati finché non è morto».

Nel cinema è entrata dalla porta principale, ma per molto tempo è stata povera.

«Essere entrata dall’ingresso principale mi ha evitato la gavetta lunga, ma sono rimasta povera per molto tempo… Facevo uno o due film all’anno, era nata la prima figlia. Quando già avevo fatto Bianca con Nanni Moretti, venne una giornalista a casa. L’appartamento era molto modesto, con una libreria scassata, un divano sbilenco. Mi chiese: scusi, vive così per motivi politici?».

 

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