Marco D’Amore: «Alla prima conferenza stampa per Gomorra mi dissero: ‘Bravo, parli bene l’italiano’»

Al Fatto: «Molti ragazzini di Scampia li ho ritrovati a teatro solo per vedermi. A Servillo non riuscivo a dare del tu, mi abbagliava, Sorrentino invece riusciva a competere con lui»

marco d'amore

Sul Fatto Quotidiano una lunga intervista a Marco D’Amore. Nato a Caserta nel 1981, ha lavorato a teatro con la compagnia di Toni Servillo, poi nel cinema e, dal 2014, è Ciro, nella serie Sky Gomorra. Ricorda la sua gioventù nel casertano, parlando anche di Saviano ragazzo.

«L’ho sempre visto come molto serio, molto preso, molto impegnato. Era già Saviano, con una grande differenza: aveva i capelli lunghi fino al culo; (sorride) lo chiamavamo “l’indiano” e questo aspetto selvaggio lo rendeva ancor più eroico».

Dopo anni di Gomorra sa riconoscere le armi.

«So cos’è una Glock, una M12… (e l’elenco è lunghissimo). Mi fanno cagare loro e tutti quelli propensi al porto d’armi».

Del set di Gomorra racconta:

«Nella prima serie Salvatore recitava la parte del figlio incapace del boss, e quando impugnava la pistola non la puntava dritta, ma girata: fuori dai ciak arrivavano i ragazzini che provavano a spiegargli quale era la tecnica corretta. E quella consapevolezza non arrivava dai film o dalle fiction, ma dalla quotidianità: fu doloroso rendercene conto».

I veri camorristi l’hanno mai fermata?

«Chissà quante volte è successo e non solo a Napoli, magari a Milano o a Brescia; ovviamente quelli del mio territorio li riconosco al volo, ho le antenne, ma nessuno di loro mi ha mai fermato per complimenti o accuse, nessun tipo di esaltazione: in qualche modo sanno rispettarti per il tuo lavoro. Quando giriamo in quei quartieri il primo impatto con noi è legato alla fatica; quasi tutti i giorni ci domandavano: “Ma chi t’o fa fa’?”. Perché pensavano al cinema come un gioco, un divertimento, mentre magari ci alzavamo alle cinque del mattino e giravamo dodici ore sotto la pioggia».

Racconta la prima conferenza stampa per Gomorra:

«Penso alla prima conferenza stampa quando a un certo punto una giornalista si complimentò con me: “Bravo, parli bene l’italiano”; comunque subito dopo il lancio mi sono ritirato nel mio convento. Quello dei frati cappuccini della mia famiglia: hanno ostinatamente preservato la nostra normalità. E ho continuato a leggere».

Uno dei lati positivi del diventare celebre, racconta, è aver intercettato i ragazzini:

«Su di te si apre uno sguardo più ampio, entri in contatto con alcune realtà importanti, con artisti, attori, registi; da lì quello che proponi viene recepito con una differente attenzione. E poi, soprattutto, ho intercettato i ragazzini: molti di Scampia li ho ritrovati a teatro solo per vedermi. (Sorride) Al Bellini di Napoli ricordo un quindicenne, accompagnato dalla fidanzata, orgoglioso perché per la prima volta aveva indossato una cravatta ed era contento dello spettacolo».

Com’era Sorrentino da ragazzo?

«Ho l’immagine di lui che prova a convincere Servillo a girare L’uomo in più, e poi quando veniva a vederci a teatro insieme a sua moglie Daniela. Mi ha sempre impressionato perché vedevo e sentivo la sua capacità nel competere con Toni; Toni è un essere umano che incute grande soggezione».

Anche a lei?

«Mai. Però non riuscivo a dargli del tu, ero abbagliato da lui. Poi un giorno mi ha detto: “Guaglio’, hai rotto”».

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