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Maradona non era Maradona per volontà divina. I superpoteri li aveva nella testa

È questa la lezione che il Napoli di Spalletti deve assimilare. Ribellarsi al destino, scacciare le sirene del vittimismo e dello sfascismo

Maradona non era Maradona per volontà divina. I superpoteri li aveva nella testa
1989 archivio Storico Image Sport / Napoli / Milan / Diego Armando Maradona-Marco Van Basten / foto MB/Image Sport

Trent’anni dopo, la narrazione che accompagna Maradona è a dir poco fuorviante. Sono le conseguenze dell’appiattimento temporale che s’accompagna alla mitologia. La riduzione storica fa di Maradona un calciatore soprannaturale, dotato di poteri magici, in grado così di battere qualsiasi avversario.

Nella realtà dei fatti, invece, la vita di Maradona – come quella di tutti – è stata sangue e merda. E non fa eccezione la vita sportiva di Maradona. Le vittorie non sono mai arrivate per manifesta superiorità. È una leggenda priva di qualsiasi appiglio alla realtà. La straordinaria forza di Maradona semmai era proprio l’assoluta refrattarietà all’arrendevolezza. Maradona, nato povero poverissimo, ha lottato e penato per il raggiungimento di qualsiasi obiettivo. Basti pensare che nel 1982, dopo aver fallito il suo primo Mondiale da cui uscì con un’espulsione per un brutto calcio rifilato al brasiliano Batista, si ritrovò in un letto d’ospedale col malleolo maciullato e una serie di punti interrogativi non banali sulla sua carriera. È un po’ quel che accadde a Muhammad Alì il cui mito nacque dopo l’insperata vittoria di Kinshasa su Foreman, vittoria su cui nessuno degli addetti ai lavori avrebbe scommesso un centesimo.

Mito è un termine fuorviante. Si fa presto a dire mito. Il mito ha sudato per diventare mito. Si è allenato quando altri si sono fermati. Ha visto strade che altri non riuscivano a scorgere o a percorrere. Maradona non è diventato Maradona per volontà divina. Anche D10S è fuorviante. I superpoteri di Maradona erano nella testa, nella tempra d’acciaio. Oltre che in quel piede sinistro. Da solo, il piede sinistro sarebbe servito a poco. Cambiate il cervello di Maradona, e cambierebbe l’intera carriera di Maradona.

Come ogni sportivo, come ogni essere umano, Maradona ha perso. E ha perso tante volte. Maradona a Napoli non è stato solo la punizione a due in area contro la Juventus. È stato anche il 5-1 a Brema contro il Werder. È stato il primo maggio. È stato il 3-1 a Verona nella prima giornata. E il rigore sbagliato in quel 3-0, sempre a Verona, che sembrava il preludio all’ennesimo scudetto perduto. È stato il rigore sbagliato a Tolosa. Il 4-1 e il 3-0 subiti dal Milan di Sacchi nell’88 e nel 90.

La sconfitta è parte della vita. Come la notte lo è del giorno. La differenza, quel che ha contribuito a rendere leggendario Maradona, l’ha fatta la reazione alle sconfitte. E quando non è stato determinante lui, a soccorrerlo è arrivata quella squadra che lui nel corso degli anni aveva trasformato dal punto di vista mentale. Come accadde nei tempo supplementari di Napoli-Juventus di Coppa Uefa con quel gol al 119esimo di Renica, gol realizzato senza Maradona (era stato sostituito da Bianchi prima dei rigori).

Tutto questo per dire che il Napoli di Spalletti ha perduto due partite di fila. Due partite e oggi è ancora in testa al campionato e in corsa per la qualificazione all’Europa League. Ora, messo agli atti che se negli anni Ottanta fossero esistiti i social, il Napoli non avrebbe mai vinto lo scudetto. Mai. È il caso di prendere atto che nello sport si perde. Il Napoli ha perso contro l’Inter e contro lo Spartak Mosca. Due sconfitte molto diverse. È la reazione alla sconfitta che farà la differenza. Come in qualche modo ha detto Spalletti. Che predica in maniera perfetta, ma che comunque deve fare i conti con un ambiente che non smette di suonare il melodioso e rassicurante canto del vittimismo (e dello sfascismo). Basta poco per lasciarsi cullare da questo singolare canto delle sirene partenopee. Per ora, oseremmo dire stoicamente, Spalletti resiste. A suo modo è un uomo solo. È anche giusto così. Tutti noi siamo soli. Deve mettere i tappi ai suoi calciatori e proseguire. Lui può farsi legare al palo e ascoltare le sirene. Sono riemersi persino i gattusiani che potremmo definire i lemuri dell’era contemporanea.

Sarà il tempo perduto per la ricerca di un nuovo equilibrio a dire quanto il Napoli sarà competitivo. Ma in questi casi, decisamente più della tattica, contano la capacità di remare controcorrente, di stringere i denti, di tradurre in pratica mesi di insegnamenti anche e soprattutto caratteriali. È nella difficoltà che diventano più evidenti i miglioramenti. È solo nella difficoltà che si comprende se è realmente cambiato qualcosa.

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