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Il ragù mantiene le promesse. La costruzione dal basso è la versione calcistica dei no vax

Pure a Berlino si trova la pezza a cannella. Non c’è da abbattersi troppo, il campionato lo vincerà la meno peggio e neanche l’Inter è parsa imbattibile

Il ragù mantiene le promesse. La costruzione dal basso è la versione calcistica dei no vax

Il fine settimana era stato battezzato da un evento prezioso: avevo trovato un bel chilo di pezza a cannella al supermercato a Berlino. La signora al banco me lo aveva consegnato con lo sguardo sonnolento e stranito di chi non capisce di quale tesoro si stia privando. Dunque era chiaro che la mia missione fosse di dedicare il sabato a approntare il ragù per la domenica.

Nel pomeriggio, mentre il cielo plumbeo dei sessantacinquemila casi giornalieri di covid nazionale faceva da sfondo alle sirene delle ambulanze che avevano ripreso a sfrecciare (ma chi siamo noi per non rispettare la scelta coraggiosa di Kimmich di farsi i cazzi suoi?), la Lazio dal gioco totale aveva già preso due bomboloni restituendone zero e la cipolla tritata si adagiava con piglio regale sul fondo del tegame. Die Zwiebel, la Regina delle piante – che secondo Wikipedia era già alla base della dieta degli schiavi che innalzarono le piramidi in Egitto ma certamente non di quelli che hanno costruito gli stadi in Qatar – può trarre in inganno ed apparire plebea poiché le è richiesto di toccare per prima l’olio caldo, ma in realtà continua a guardare cuoco e ingredienti dall’alto in basso per tutta la durata della cottura. La cipolla è così: non cambia mille facce a seconda delle panchine su cui posa il culo.

Ero ormai lontano dal cristallino intervento da vero leader dello spogliatoio che Reina aveva calibrato su Chiesa e già Duncan iniziava le danze all’Artemio Franchi, mentre la pezza a cannella, in pentola assieme a una tracchia ed il vino rosso, stava iniziando a sfumare in una nuvola bruna che ricordava da vicino l’essenza della difesa del Milan teleportata nel mio soggiorno sul buffering di DAZN. Ma siccome Saponara e Vlahović avevano deciso di rendere il tutto davvero interessante, non potevo attendere oltre per inserire del Tomate in pentola.

Ora, cari lettori, esistono due scuole filosofiche secolari: la prima detta di usare passata di pomodoro, la seconda di miscelare col concentrato. Ma la mia famiglia appartiene alla terza via ascetica, apparentemente derivata dai precetti di Meister Eckhart, del concentrato puro, per cui si apre la confezione di quello doppio e si versa sulla carne un paltò granata su manzo e maiale, in tutto simile alla divina indifferenza con la quale Zlatan ammanta di oro una prestazione milanista che ricorda molto da vicino le scarpe bianche sotto il completo nero che anche Pioli, dopo il nostro ex allenatore, ha deciso di aggiungere con eleganza casual al suo guardaroba.

A proposito di ex, la domenica era iniziata coi divorzi. Al Bano aveva confidato che la sua ex Romina le aveva confessato che, quando sorrideva sul palco assieme a lui, in realtà era perché le veniva giù la tromba di Eustachio – ché comunque quando ci si separa è sovente questione, se non di trombe, certamente di fiati. La rivelazione era assai meno cruda delle critiche che erano state consegnate la settimana prima a Jorginho, ex candidato al pallone d’oro ai tempi in cui a Napoli si spingeva in azzurro l’ex candidato alla nazionale Politano. Il Corriere, la mattina, scriveva anche che l’ex Spalletti a Milano è stimato ma non rimpianto, con divorzio alle spalle dagli alimenti pesanti, eppure ha scelto la sua ex città per farci vivere la famiglia.

La pezza a cannella, invece, il giorno dopo era più splendente di prima perché il ragù, vivendo solo il presente, non si tramuta mai in ex. Il ragù, come le palle nelle statue di Maradona, non ha sede fissa, muta e transita ed è il terrore di ogni avvocato divorzista (oltre che degli scultori che cercano la suddetta palla come al CERN cercavano di agguantare il bosone di Higgs).

La Federazione, intanto, aveva fatto seguito alle richieste di noi raguisti del sabato-domenica-lunedì combinando un calendario in cui, tra le 12:30 e le 18 del giorno del Signore, non accadesse assolutamente nulla – ovvero Sassuolo, Cagliari, Venezia e altra chincaglieria. Certo c’era la Salernitana, nostra eterna rivale, ma tutto sommato potevo serenamente optare per terminare il peppiamento, far riposare un minimo la carne e spezzare gli ziti.

A pochi minuti dalle 15 il ragù era servito in tavola. Opportunamente denso, profumato, la pezza a cannella, alcune ore fa nelle mani della sonnolenta impiegata del supermercato, dava il meglio di sé.

Così si attendevano le 18. Il Napoli affrontava in casa la favorita alla vittoria finale, solo un po’ attardata. Il primo tempo è molto partenopeo: gli azzurri si mostrano in completezza come una squadra che sa giocare bene ma riesce anche a farsi ammonire tre giocatori in mezz’ora in condizioni surreali – Osimhen ha bisogno di tisane al tè verde e camomilla e bacchette di incenso profumato di quelle che si accendono nei mercatini di Natale. Poi, sul finire dei primi quarantacinque, irrompe il delirio calcistico ormai istituzionalizzato in questo sport, la sempiterna costruzione dal basso che assomiglia ogni giorno di più ai no-vax in piazza: non basta la realtà a dire come stanno le cose, i passaggi orizzontali rimangono necessari per motivi che neanche Fauci saprà mai spiegarci.

Nella ripresa, a Petagna l’Inter risponde con Dzeko, i calciatori cadono come su un campo di guerra, fin quando Mertens viene fuori all’improvviso come il pezzo di tracchia che ti ritrovi a sorpresa sotto al maccherone. Non sarà abbastanza.

Alle 20 il Napoli termina sconfitto ma la pezza a cannella, seppur fredda, fronteggia ancora bene le sfide del tempo. Nei secoli, la città ha messo a punto una ricetta che possa affrontare l’inesorabilità dello scorrere di ore e giorni rimanendo salda in ogni incontro o scontro – accettando tagliatelle all’uovo o ziti spezzati di Gragnano senza smarrire consapevolezza. Il ragù è la promessa napoletana che non deperisce, anche nel ventunesimo secolo, basta che vi sia una cipolla e qualcuno disposto a investire cinque ore del fine settimana a girare un mestolo di legno piuttosto che scrivere uno striscione inutile sotto la Tour Eiffel. Al sabato la priorità richiede di provare il taglio fresco e non continuare a scegliere pezzi ormai malandati nella speranza che il sugo domenicale riesca per incanto. Gli azzurri hanno girato e rimestato, ma senza costante convinzione – e se smetti di girare venti minuti il concentrato si stratifica in una patina nera che non servirà più allo scopo. Si gira costantemente, perché girare solo in parte equivale a finire col dover chiamare il takeaway cinese sotto casa. Non c’è tuttavia da abbattersi troppo: questo campionato non lo vincerà la migliore ma la meno peggio. Armiamoci di pazienza perché neanche l’Inter è sembrata imbattibile davanti ai fornelli.

Per questo noi continueremo a seguire, tifare e sperare. Ma più ancora continueremo a cercare la pezza a cannella nei banconi delle macellerie di tutto il mondo perché è una gioia capace di durare finanche il lunedì mattina – freddo e azzeccato ma mai morto, il ragù mantiene le promesse. Più del tiro a giro. 

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