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L’Italia furbetta e democristiana, sta acquattata in silenzio. Periferia anche nelle figuracce

Gli altri protestano. Qua tutti coperti in attesa di vedere come va a finire: per garantirsi un posto al sole o per sfilarsi un minuto prima

L’Italia furbetta e democristiana, sta acquattata in silenzio. Periferia anche nelle figuracce

“Poi stamattina è venuto anche il presidente per parlarci di questo progetto futuro, ci ha dato grande fiducia”. Nel favoloso mondo di Pirlo gli uccellini, frivoli, cinguettano al mattino, zompettando sulla brina dell’erba appena tosata. Passa Andrea Agnelli e tra un convenevolo e una pacca sulla spalla gli racconta di questa Superlega. “Una figata”. Nel frattempo in Inghilterra stanno bruciando maglie, stadi, i tifosi di ogni ordine e grado rinnegano fedi centenarie, il Primo Ministro minaccia “bombe legislative” per fermare i ricchi ribelli, Merkel e Macron rinsaldano l’asse franco-tedesco per far fallire il golpe del calcio europeo. E Pirlo sta lì, coglie una margheritina salvandola dal calpestio della Juve che s’allena in vista della sfida col Parma. Poi siede in conferenza stampa, e detta a tutti la definizione dell’inconsistenza italiana.

E così Pioli, che serafico prova a non rispondere a precise domande sull’operato della sua dirigenza. E così Conte, che resta in silenzio mentre l’Inter con lo scudetto già in tasca viene proiettata nel torneo socchiuso dei più abbienti e indebitati. Chi per il momento, ma chissà per quanto, ne resta fuori – Roma, Napoli, Lazio – traccheggia. Si posiziona all’ultimo banco, evita lo sguardo del prof che vuole interrogarlo, si mimetizza con democristiano senso dell’opportunità, e aspetta fiducioso e passivo.

Aurelio De Laurentiis, che da anni si muove come un guastatore tra le ruggini di un sistema che lui stesso definisce antico, va in consiglio di Lega e non spiccica una parola mentre Cairo accusa Agnelli e Marotta d’alto tradimento. Smentisce con un laconico tweet l’abboccamento di JP Morgan (“JP…chi?!”) simulando distacco: “Io ieri notte dormivo”. La Roma – altra pretendente al posto in Superlega – aspetta il pomeriggio per annusare l’aria putrefatta del golpe fallito, cercando di saltar giù da un carro che perde vincitori da tutte le parti. Bastava seguire l’andamento del titolo Juve in Borsa per capire dove soffiava il vento.

Intanto Klopp ha già minacciato le dimissioni, Guardiola – da buon copy qual è – ha registrato il claim della resistenza (“Lo sport non è sport, se perdere non conta niente”), e il capitano del Liverpool Henderson convoca in riunione i suoi pari – “i capitani della Premier”… pensa l’irrilevanza della stessa categoria in Serie A – e poi si fa portavoce di una clamorosa uscita pubblica dello spogliatoio di Anfield:

“La Superlega non ci piace e non vogliamo che accada. Questa è la nostra posizione. Il nostro supporto verso questo club e i suoi tifosi è incondizionato”.

Da quelle parti sanno come si fa un ammutinamento, se è il caso.

Mentre scriviamo i tifosi della Juventus aspettano invano che Agnelli esca dalla doccia nella quale dev’essersi chiuso ieri a piangere, e dica loro qualcosa. Di sinistra, di destra, qualsiasi cosa. Come ha fatto il proprietario del Liverpool, John W. Henry, in un contrito videomessaggio nel quale recita un mea culpa totale: “Scusate, ho sbagliato, è tutta colpa mia, vi ho deluso”. In Italia Agnelli, l’attuale presidente bianconero non più presidente dell’Eca e chissà se ancora vicepresidente della Superlega, troneggia su un paio di prime pagine nazionali con un’intervista resa evidentemente prima che tutto implodesse, con uno straniante effetto ritardante: “Tra di noi c’è un patto di sangue, la Superlega andrà avanti al 100%”.

“Andrea, tutto bene lì dentro?”
“Un attimo, ho tagliato le cipolle, dammi ancora un minuto…”
“Ma che gli dico a questi? Si fa ‘sta Superlega?”
Ma quale Superlega… è tutto finito…
(rumore di sciacquone in sottofondo)

Non pervenute, finora, dichiarazioni di Buffon, o di Handanovic, o di Romagnoli. Capitani, loro capitani.

E’ come se l’Italia, che pure s’è imbarcata nell’avventura investendo il blasone di Juve, Inter e Milan, non concepisse l’idea di non pensarsi furbetta, astuta, scaltra. Senza rendersi conto d’apparire invece come la solita periferia dell’impero, accessoria, cialtrona e poco credibile. Un riflesso condizionato di subalternità: non possiamo fare a meno della mediocrità, persino quando serve a salvarci la pelle o perlomeno la reputazione.

I comunicati ufficiali con i quali i club italiani alla snocciolata si tirano fuori dal fosso sono esemplari: burocratici, freddi, impauriti. Quello dell’Inter sembra scritto da un ente terzo, un notaio che prende visione della figuraccia e la vidima.

Il Corriere della Sera Roma, tradendo un ottimismo un po’ sospetto, scrive stamattina che “la Roma guadagna ora un posto di rilievo nella Lega calcio, ormai spaccata dopo il tradimento delle tre big del Nord. Si ricollega, soprattutto, a un sentimento popolare di fierezza che era stato completamente perduto”.  Per il Corriere “la Roma non si è fatta trattare come una seconda scelta o come un premio di consolazione”.

Ce la possiamo anche raccontare così, certo. E’ rinfrancante. Basta non perpetuare l’avvilente confronto con gli inglesi. Il richiamo alla “fierezza popolare”, a guardare Oltremanica, è imbarazzante.

Gli inglesi – tutti, dai giocatori, alla stampa, ai tifosi, alla politica, alla Corona (il principe William, terzo in linea di successione al trono britannico, ha saltato la neutralità della Casa Reale negli affari mondani per esprimere la sua indignazione) – hanno scatenato una rabbia istintiva che in poche ore ha capottato le velleità di Brexit dei “big six”, dei sei club in Superlega, lasciando un cratere fumante.

In Italia hanno osato chiedere conto a Pirlo di questo sconvolgimento sistemico, di cui pure il suo presidente è tra i macchinatori. Pirlo ha serrato lo sguardo come il nonno di Heidi, e ha chiarito a tutti che il calcio made in Italy esportabile è ancora quello delle tre scimmiette che non vedono non sentono e non parlano. Al raccolto delle figuracce siamo impareggiabili, però.

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