Verdone: «Ho un rapporto sessuale con la vita: l’ho amata talmente tanto da non farmi sfuggire nulla»
Al Fatto: «Una volta Nuti mi convocò nel suo camerino. Lo trovai in bagno. Era seduto sul gabinetto a leggere Tex. “Stai bene?”. “Mi girano i coglioni”. “E perché?”. “So’ cose nostre... ciao”»

Il Fatto Quotidiano intervista Carlo Verdone. Ha appena pubblicato un libro, “La carezza della memoria”. Una sorta di album dei ricordi di cui racconta la gestazione.
«E’ nato esattamente nel primo giorno di lockdown: ero solo in casa, quindi decido di mettere in ordine, di affrontare una grossa cassa di cartone sigillata e piazzata in un armadio. Sopra c’era scritto: “oggetti e fotografie da riordinare”, e le aveva raccolte il mio compianto segretario, Ivo Di Persio…».
Racconta l’emozione nel riconoscere la sua scrittura, il dolore alle anche nel sollevarla, tanto che la scatola gli cadde dalle mani.
«La scatola si è rotta e si sono sparse una miriade di fotografie in bianco e nero, a colori, stampe, lettere, oggetti, appunti, agende telefoniche, rosari, santini; a quel punto mi sono seduto e ho iniziato a esaminare, e ogni foto e oggetto mi ha riaperto dei cassetti delle memoria. Dopo un quarto d’ora ho capito: il contenuto sarebbe stato il tema del libro».
Ricordi che in qualche modo aveva rimosso, dice.
«L’ho intitolato La carezza della memoria perché hanno rappresentato una reale carezza per la mia anima; io che sono una persona che non piange mai, e non è un bene, in questo caso in un paio di occasioni ho sentito le lacrime agli occhi».
Il libro, spiega, aiuta a capire chi è davvero Verdone. Più di un film.
«La scrittura consente una libertà assoluta, senza alcuna pressione, senza nessuno che ti indica dove devi strappare una risata, o un momento di riflessione; il cinema è sempre un compromesso tra te e il produttore».
Definisce il libro
«lo stupore di una persona perbene, come mi ritengo, davanti alle proprie emozioni».
Nel libro Verdone racconta la sua breve esperienza teatrale, interrotta quasi subito.
«È una mia fragilità, e non bisogna aver paura ad ammetterlo; sarei stato un ottimo attore teatrale, perché non ho mai fallito uno spettacolo, ho sempre riempito le sale, ma avevo l’angoscia di ripetere sempre lo stesso spettacolo. Non lo sopportavo. Mi portava all’esaurimento nervoso. Eppure in ogni rappresentazione cercavo di variare, di improvvisare, con i miei attori terrorizzati che non sapevano cosa stessi combinando; non ho la mentalità teatrale, dopo la mia ultima recita ho provato la sensazione di essermi tolto un macigno».
Dice che nella sua carriera è stato capace di amministrarsi.
«Saper dire novantanove “no” e un sì, perché questo mondo è pieno di tranelli, di proposte che ti possono far sbandare, e sono stato bravo a evitarli, ad azzeccare la situazione giusta, e questa dote forse la devo alla mia famiglia, alle idee molto chiare sul mio lavoro, conoscere i limiti e le forze: ho fatto a meno di tanti soldi ma forse mi sono allungato la carriera».
Sullo sfondo, sempre, sua madre.
«È stata l’angelo custode di tutta la carriera iniziale; ogni sera veniva a teatro, per lei era troppo bello vedere il figlio ricevere quegli applausi; si è ammalata dopo due anni e non c’è stato più niente da fare, e se devo dire un grazie a qualcuno per slancio, spinta, incoraggiamento, lo rivolgo a lei».
La madre lo proteggeva anche dal padre, pessimo guidatore.
«Papà era un uomo ottocentesco, scriveva con penna e calamaio, e dal punto di vista tecnologico era un disastro: prima di prendere la patente ha tentato più volte l’esame e, ottenuta, ha impiegato cinque anni per riuscire a portare la macchina».
La prima volta che uscì con il padre in macchina, ebbe un incidente. Il risultato fu un bernoccolo, del sangue, occhiali rotti e l’arrivo della mamma in taxi.
«E mamma ha preteso l’autista e proibito di andare soli con lui; per papà un’umiliazione enorme; era bravo solo con la retromarcia e i parcheggi, per il resto una tragedia: doveva nascere in Inghilterra perché andava sempre a sinistra».
Nel libro ci sono Francesco Nuti sulla tazza del gabinetto e persino Massimo Troisi già malato. Di Nuti dice:
«Personaggio particolare: lui era nei Giancattivi, e insieme ad altri comici componevamo il cast di Non stop; per cercare di rompere il ghiaccio gli chiesi un parere su uno sketch. Lui mi fissò un appuntamento nel suo camerino e quando mi presentai non lo trovai. Una sarta mi rivelò che l’aveva visto entrare in bagno. “Francesco, sono Carlo,” dissi, bussando. “Sììì, Carlo”. La porta si aprì. Era seduto sul gabinetto a leggere Tex. “Ti cercavo per il mio sketch”. “Ah già, è vero” replicò senza alzare lo sguardo dal giornalino. “Stai bene?” “Mi girano i coglioni.” “E perché?”. “So’ cose nostre… ciao”».
Bellissima la definizione che Verdone dà del suo rapporto con la vita.
«Ho un rapporto sessuale con la vita: l’ho amata talmente tanto da non farmi sfuggire nulla; nella vita non c’è piattume, ma poesia anche dentro lo scompartimento di un vagone vuoto, così ho vissuto pienamente, da maniaco del dettaglio».