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Fanna: «Perché gli allenatori di oggi urlano? Se uno prepara bene la partita, non ce n’è bisogno»

Vinse lo scudetto a Verona. A Repubblica: «Bagnoli parlava pochissimo, sapevamo già cosa fare. Ferlaino mi voleva al Napoli di Maradona»

“Mi chiamo Pierino. Non so perché sulle figurine ci fosse Pietro. Nella Juve con me giocavano Pietro Anastasi e Pietro Paolo Virdis. Forse, con tutti quei Pietro, la Panini si confuse. Ma sono Pierino, per gli amici e anche per l’anagrafe”.

Pierino. Pierino Fanna. Nei primi album Panini aveva i capelli, negli ultimi era quasi calvo. Ala scudettata con tre maglie diverse, ma una sola da leggenda vera: il Verona di Bagnoli. Il miracolo di provincia irreplicabile, anche a suo dire.

Repubblica l’ha intervistato, ed è un ritorno per direttissima al calcio anni 80, quell’atmosfera lì. Dice di non seguire più il calcio da quando è nato il suo primo nipotino, quattro anni fa (“Ho deciso di fare il nonno a tempo pieno senza distrazioni”). Ma gioca ancora, e lo allena, ancora, Osvaldo Bagnoli. La squadra amatoriale si chiama ASD Ex Calciatori Hellas Verona Onlus. In panchina, ovviamente, Osvaldo Bagnoli.

“Se gli avversari sono troppo giovani, io non gioco, saluto e basta. Sono riuscito a non infortunarmi seriamente per tutta la carriera, non voglio farmi male adesso che ho 62 anni”.

Fanna ha smesso presto, perché “l’idea di scendere di categoria non mi piaceva. Non amavo le retrocessioni, dopo averne provata una”. E poi le gambe non giravano come adesso:

“La preparazione atletica era rudimentale, si andava per esperimenti. Eravamo cavie per l’allenamento in palestra. Se sbagliavi un test di velocità eri fuori. Le eccezioni c’erano, ma rare. Sacchi ad esempio dei test atletici se ne fregava, Carlo Ancelotti giocava anche se non correva molto veloce, visti i problemi alle ginocchia. Ed era un campione“.

Fanna lasciò il Verona per l’Inter, l’anno dopo lo scudetto. Lo voleva pure il Napoli di Maradona.

“Da bambino ero interista, era il mio sogno. Arrivare dal mio paesino in Friuli a San Siro era una cosa enorme. L’Inter mi seguiva da tempo. Col senno di poi è facile dire che ho sbagliato, ma la vita non funziona così. Era giusto andare. Mi voleva anche Ferlaino, nel Napoli di Maradona, ma scelsi i nerazzurri. Alla Pinetina ritrovai Trapattoni, con cui ero in conflitto dai tempi della Juve, pur rispettandoci molto. Mi toglieva dal campo, quando eravamo in vantaggio, per inserire un difensore o un centrocampista”.

Invece con Bagnoli si trovarono, e infatti non si sono lasciati più.

“Mi capiva anche dal punto di vista umano. Avevo bisogno della sua fiducia, di sentirmi apprezzato. Per incidere, devi giocare. Ero un’ala, davo sempre il massimo. Entravo nei suoi schemi. Ragionava per ruoli con grande chiarezza. Qui a Verona sono rinato. Vedo l’Arena, dove festeggiammo con 40mila tifosi, e mi emoziono. Grazie al Verona tornai in Nazionale, dopo avere saltato Messico ’86 per un anno difficile all’Inter, con Castagner e Corso in panchina. A Verona sono stato premiato per tre anni migliore ala del campionato”.

Parla del mestiere di allenatore.

“Il mestiere dell’allenatore negli anni è molto cambiato. Basta guardare come stanno in panchina oggi. Stanno in piedi e gridano tutta la partita. Mi stupisce ogni volta. Se uno prepara bene le partite, non ha senso poi sbracciarsi per 90 minuti. La partita dovrebbe essere il risultato di quello che si è provato in allenamento. Per mia esperienza, meno l’allenatore parlava e gesticolava, meglio giocavamo. Bagnoli parlava pochissimo, perché sapevamo già cosa fare”.

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