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«In Lombardia tanti morti perché li hanno portati in ospedale, in Veneto i medici hanno fatto filtro»

Il CorSera intervista il virologo Giorgio Palù consulente di Zaia: «Il Covid-19 è un virus nosocomiale. Nessuno ha ricordato la lezione della Sars»

«In Lombardia tanti morti perché li hanno portati in ospedale, in Veneto i medici hanno fatto filtro»

Il Corriere della Sera intervista il virologo Giorgio Palù. Docente emerito di microbiologia a Padova, professore di neuroscienze a Philadelphia, presidente uscente alla Società europea di virologia. Uno dei virologi italiani più considerati all’estero. Oggi è consulente del presidente della Regione Veneto, Luca Zaia. Studia l’isolamento e il sequenziamento del Covid-19.

La Regione Veneto ha iniziato uno studio sulla siero-prevalenza, per capire se esiste immunità al virus e come proteggerci dal contagio in futuro. L’idea è di portarsi avanti per prevenire un ritorno dell’epidemia.

«L’intenzione è quella. Ci servono, e parlo dell’Italia intera, dati che al momento non sono in nostro possesso. Dobbiamo mappare in fretta i soggetti asintomatici che sono o non sono venuti a contatto con il virus. In una fase di graduale ripresa delle attività, che spero venga presto, sono queste le cose da sapere, non altre».

I tempi per le risposte sono naturalmente lunghi, ma il professore si dice ottimista.

«Dobbiamo attendere informazioni sulla variabilità della sequenza di questo specifico genoma. Al contrario di molti, non sono però pessimista. La Sars si è estinta in un anno, la Mers è ricomparsa in casi molto sporadici. Questo virus muta, ma poco».

Ma soprattutto fa un interessante confronto tra la Lombardia e il Veneto, che presentano due tassi di mortalità molto diversi. In Lombardia il tasso è del 14%, in Veneto solo del 3,3%.

I motivi sono due. Il primo è la differenza socio-morfologica tra le due regioni, spiega.

«Sono due regioni con una dimensione socio-morfologica molto diversa. Codogno e Lodi sono città dove si vive in condominio, Vo’ Euganeo è un paesino sui Colli Euganei».

Ma fa differenza soprattutto la cultura sanitaria. In Veneto ci sono molti presidi medici sul territorio, a differenza della Lombardia.

«In Lombardia hanno ricoverato quasi tutti, il 60% dei casi confermati, esaurendo presto i posti letto. Da noi, i medici di base e i Servizi d’igiene delle Asl hanno fatto filtro: solo il 20%. Tenendo a casa i positivi asintomatici si è evitato l’affollamento degli ospedali e la diffusione del contagio».

In Lombardia non si è fatto tesoro delle lezioni impartite dalle epidemie precedenti, spiega.

«Nessuno si è ricordato la lezione della Sars. Che è stato un virus nosocomiale, così come lo è il Covid-19. A diffusione ospedaliera. La scelta della Lombardia di trasferire i malati dall’ospedale di Codogno, che era il primo focolaio, ad altre strutture della regione, si è rivelata molto infelice. Perché ha esportato il contagio, senza per altro che venisse monitorato subito il personale medico. Hanno agito sull’onda emotiva. Tutti dentro. Invece dovevano tenerne fuori il più possibile. Qualcuno non ha capito che questa non è un’emergenza clinica e di assistenza ai malati, ma di sanità pubblica».

Un virus nuovo come il Covid-19 avrebbe dovuto essere affrontato con misure preventive.

«Con l’isolamento, bloccando il contagio. Non con l’automatismo Pronto soccorso-ricovero».

Si tratta anche di una questione culturale.

«Una forma mentis. In Lombardia esiste da molti anni una sana competizione pubblico-privato. Dove si evince la maggiore efficienza di ognuno? Dalle persone accolte in Pronto soccorso. Ricoverando, si è voluto mostrare efficienza in ambito clinico. Ma così non si è fatto alcun argine al virus».

 

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