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«I medici raccontano claustrofobia e senso di colpa. Soffrono per non poter essere accanto ai malati»

Su Repubblica Napoli l’intervista alla psicologa dell’ospedale dei Colli: «Una infettivologa mi ha detto: “Sapevamo che si muore da soli, ma non non siamo preparati a questo”»

«I medici raccontano claustrofobia e senso di colpa. Soffrono per non poter essere accanto ai malati»

Repubblica Napoli intervista Valentina Penta, psicologa-psicoterapeuta dell’ospedale dei Colli. Ascolta i medici quando finiscono il turno, li aiuta con un supporto psicologico.

«Quello che più pesa, su tanti operatori sanitari, è il non poter essere accanto agli ammalati nei momenti più duri. Ma intendo “accanto”: nel significato che gli davamo prima. In più, c’è la lacerazione di tornare a casa e stare isolati: senza toccare i figli, senza poter vivere la famiglia».

Racconta di aver sentito telefonicamente 4 infettivologi del Cotugno, ogni settimana, 5 infermieri (di cui due del Monaldi) e medici e infermieri del reparto giovani trapiantati.

«Una infettivologa mi ha detto: “Sapevamo che si muore da soli, ma non non siamo preparati a questo”. Un medico ha chiesto aiuto: “Sono settimane che la mente non stacca, continuo a pensare a come risolvere i problemi del reparto, i rischi di contaminazione, i turni e le separazioni tra ambienti”».

Il peso che il personale sanitario si porta addosso è enorme.

«Hanno bisogno di condividere questo peso. Le scene che mi raccontano, dal Cotugno o dal Monaldi, sono inimmaginabili. Spesso mi rendo conto che i loro vissuti non trovano ancora le parole per essere descritti».

Tutti sono accomunati da un unico disagio.

«Il senso di claustrofobia e il senso di colpa. La claustrofobia dovuta alle tute anticontaminazione, mascherine, guanti, che non consentono il beneficio di uno sguardo libero dalle visiere o una carezza a quei pazienti così spaventati e dai quali bisogna però mantenersi distanti, e che invece più che mai necessiterebbero di calore e umanità».

Il senso di colpa, invece, è più della consapevolezza del non poter salvare tutti.

«Ma qui c’è di più che il non poter salvare, non si accompagna a quella naturale compensazione, che tutti noi abbiamo sempre ritenuto scontata: fatta cioè di vicinanza fisica, materiale, una carezza verso chi sta lottando strenuamente o anche per i suoi familiari. Tutto questo resta compresso…».

 

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