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Aldo Masullo: «Napoli è solo rappresentazione»

L’intervista del 2016 a Gnoli: «Ci innamoriamo del nostro apparire belli e singolari agli occhi del mondo. Una forma di narcisismo che spinge una società urbana alla propria decadenza»

Aldo Masullo: «Napoli è solo rappresentazione»

Poche ore dopo la morte di Aldo Masullo, non possiamo non ricordarlo con l’intervista che nel 2016 concesse ad Antonio Gnoli per Repubblica.

Ne riportiamo qualche brano.

Il riso è importante in filosofia?
“Lo è, come ci ha insegnato Bergson. Ma ancora più importante è il gioco. Qualunque cosa si faccia ha alla sua base il gioco simbolico. Lo appresi da Eugen Fink, negli anni in cui studiai a Friburgo. Ai suoi occhi il gioco era l’immagine stessa del mondo, il modello del Tutto. Fink non aveva fatto altro che mettersi nelle mani di un celebre passo di Eraclito: “Il tempo è un fanciullo che gioca a dadi col mondo”. Ne diede una traduzione un po’ diversa, ma il senso era che costruire e distruggere hanno in sé il tratto dell’assoluto e anche dell’innocenza”.

Fu un aspetto che incuriosì Nietzsche.
“Al punto da farne uno dei pilastri della sua visione del mondo. Tutto lo stile nicciano, al di là di ogni trattazione seria, richiama il giocoso, il bisogno di “giocare con la filosofia” “.

Il filosofo è una sintesi tra l’artista e il fanciullo.
“Esattamente. Così come l’uomo è di volta in volta giocattolo e giocatore”.

Ha mai pensato che siamo nella patria del gioco?
“Intende Napoli?”

Una risposta al fanciullo che gioca a dadi è l’adulto che gioca al lotto.
“Il gioco del lotto è l’enciclopedia del modo in cui il napoletano vive se stesso. Per secoli siamo stati un popolo sottoposto alla dominazione straniera; incapace di riscattarsi e di raggiungere traguardi più degni. Per il napoletano che non accede al regno degli eroi e dei potenti, il lotto è il solo spazio nel quale potersi rifugiare. È destino, caso, fortuna, speranza e trascendenza”.

Il suo destino come se lo era immaginato?
“Fuori dalla rassegnazione. Sono nato ad Avellino e con i miei ci trasferimmo a Torino. Mio padre impiegato alle ferrovie. Si pensionò in anticipo e tornammo al Sud, nel 1939. Precisamente a Nola. Scelsero Nola non perché fosse la patria di Giordano Bruno, ma perché c’era un ramo della famiglia, composto da piccoli industriali del vetro”.

In quegli anni Croce era la più alta autorità filosofica.
“Il culto di Croce fu un fenomeno che si sviluppò nel dopoguerra. Ricordo quest’uomo dall’aria bonaria che andai a trovare a Palazzo Filomarino. Mi ricevette un po’ distrattamente. Mi disse occupati della storia, la storia è la sola cosa che non morirà mai. C’era come un cerchio magico intorno a lui. Persone che lo proteggevano: i crociani”.

Lei non era crociano?
“Mai stato. Allora le mie tendenze – dopo le letture di Boutroux, Blondel, Bergson – erano spiritualiste. E poi c’era il marxismo che cominciava a far presa nel mondo napoletano. Mi trasferii a Napoli nel 1950. Una città che ribolliva di iniziative culturali. A parte l’interesse per Marx – di cui si fecero fautori Napolitano, Amendola e lo stesso Alicata – c’era la Società filosofica che a Napoli era coordinata da Cleto Carbonara, un uomo di notevole ingegno teorico che tentò di ibridare Gentile e Croce, correggendone i formalismi astratti con un’apertura all’empirismo”.

Che cosa è per lei il tramonto? Condizione nella quale mi pare versiamo ampiamente.
“Tramontiamo da sempre come da sempre il nichilismo pervade l’Occidente. Fu Eraclito a ricordarci che di ogni ente mortale non si può disporre due volte. E che la cosa mentre è non è. Contro il nichilismo si sono costruite macchine ideologiche e religiose oggi inutilizzabili. Anche perché è mutato il senso che noi attribuiamo al nichilismo”.

Viviamo in un’epoca nichilista?
“Vi siamo pienamente immersi. Ma con questa differenza rispetto al passato: oggi non è più interessante il nichilismo teorico, quello che affermava, da Nietzsche a Dostoevskij, che siccome non c’è più verità allora tutto è possibile. Oggi la gente ha rovesciato questa sentenza e dice che siccome tutto è possibile allora non c’è più verità”.

Paura perché?
“Ho l’impressione che stiamo vivendo ciò che io chiamo la “razionalità idiota”. Idiota non tanto delle scarse capacità intellettive, ma come suggerivano i greci dell’attenzione dedicata al proprio particolare. Siamo come i topi di una nave che affonda, ciascuno cerca la sua via di salvezza. Ma non è così che ci si salva”.

In quale modo, allora?
“Una delle chiavi della modernità civile è il rispetto. Che non vuol dire devozione, ma consapevolezza della relazione. Tutto ciò che io penso ha un senso solo se si confronta con quello che pensano gli altri. Il rispetto significa non interferire con la vita mentale dell’altro, ma confrontarsi con essa”.

Si sente un uomo realizzato?
“Non lo sono. Più vado avanti negli anni e più o la sensazione di aver perduto tempo. Un tempo ormai irrecuperabile. Le confesso però che non mi pento di nessuna delle cose che ho fatto, mentre mi pento per tutto quello che non ho fatto”.

Ancora una punta di istrionismo.
“Torniamo alla teatralità e al gioco”.

Torniamo a una certa idea di Napoli.
“Questa città è solo rappresentazione. Ci innamoriamo del nostro apparire belli e singolari agli occhi del mondo. Una forma di narcisismo che spinge una società urbana alla propria decadenza. Ma non possiamo vivere di solo fascino. Perfino la malinconia napoletana è diventata qualcosa di pittoresco”.

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