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Marino Niola: “Ci mancava sempre il tempo, ora lo abbiamo. Genitori e figli si sono riscoperti”

Intervista al Fatto: “Dopo il virus, ci sarà una società più solidale. Ogni dopoguerra mette in circolo una vitalità sconosciuta. Dovremo inventarci un nuovo modello per stare al mondo»

Marino Niola: “Ci mancava sempre il tempo, ora lo abbiamo. Genitori e figli si sono riscoperti”

Il Fatto intervista Marino Niola, professore di antropologia al Suor Orsola Benincasa di Napoli. La sua visione del futuro post-virus non è affatto pessimistica. E nemmeno, in fondo, quella del presente. A partire dalla digitalizzazione obbligata a cui stiamo assistendo.

“La società digitale è divenuta una realtà. A una velocità pazzesca ci siamo impadroniti del computer, istituzioni impolverate e austere, penso all’università, alle burocrazie dello Stato, si sono trovate nella condizione di apprendere prestissimo un nuovo sistema di trasmissione delle conoscenze e delle competenze. In tempi di pace ci sarebbero voluti vent’anni; in tempo di guerra, perché siamo in guerra, sono bastati 20 giorni”.

In un momento in cui il distanziamento sociale ha imposto una revisione dei comportamenti degli italiani, la rete ci ha aiutati.

“Le famiglie, costrette a stare a casa, hanno scoperto il valore della comunità virtuale. Questo virus ha smaterializzato la società, ha polverizzato la comunità materiale. Il distanziamento sociale è la negazione del segno quotidiano della nostra vita. Il divieto di abbracciarsi è contro la nostra natura di uomini e, per noi italiani, anche di più. Grazie alla rete le nostre vite invece si sono potute tenere in piedi. La rete, che ieri ci isolava e spesso da cittadini ci trasformava in odiatori, ci collega, anzi ci unisce. È lo strumento che ci permette di sentirci solidali, informati, vivi. Anche questa è una novità non da poco. È perfino cambiata la nostra prossemica e l’emoticon è divenuto il suo sostituto funzionale. Adoperiamo le faccette per dire e fare quel che non ci è permesso: baciare, abbracciarci, piangere, sorridere, sfottere”.

Quando tutto sarà finito, nulla sarà più come prima, ma non cambierà in peggio.

“Il futuro che vedo dietro l’angolo di questa disperante crisi ci renderà migliori, in una società più solidale. Perché ogni dopoguerra mette in circolo una vitalità sconosciuta. Abbia in testa una molla e immagini di comprimerla. Oggi la nostra vita è compressa, è sotto vuoto, è ferma. Domani, quando la pressione svanirà, quella molla ritornerà nella posizioni abituale, le energie si libereranno impetuose. Certamente saremo più poveri, ma perché più infelici? Questa guerra ci impone un’altra scoperta: riflettere e rivalutare le nostre abitudini. Eravamo piuttosto scontenti di esse e non sapevamo porre rimedio. Domani saremo costretti invece a inventarci un nuovo modello di stare al mondo”.

Il dopo-virus, per lui, sarà ricco di possibilità.

“La società che uscirà da questa prova sarà piena di vitalità e densa di talenti che avranno la possibilità di mostrarsi. E alcune conquiste, che non riusciamo a cogliere del tutto, le stiamo già vivendo”.

Abbiamo conquistato il tempo, ad esempio.

“Ci mancava sempre tempo. Per i nostri piaceri e per i nostri doveri, per i figli o per la cucina. Per la riflessione, per il sentimento. Riacquistare forzosamente un tempo così lungo è per un verso traumatico, per un altro benedetto. Siamo costretti a pensare alla nostra vita, e sicuramente a ripensarla. Soprattutto a evitare gli errori della nostra vita precedente. È poco?”

Anche il lavoro cambierà.

“In tanti lo troveranno. Quel che non sappiamo è come sarà: il suo valore economico, la sua qualità. Effettivamente, qui concordo, sono interrogativi di non poco conto”.

Inoltre, si è riscoperto il senso della famiglia.

“I figli hanno ritrovato casa. Stanno scoprendo cos’è una famiglia, stanno parlando con i genitori. E i genitori stanno scoprendo cosa vuol dire avere dei figli. Pensavamo che i nostri ragazzi non avessero altro Dio che lo spritz, il pub, la piazza o internet. Invece, a quanto vedo e sento, stanno apprezzando la casa”.

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