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Coronavirus, i calciatori non sono vittime. Se non vogliono giocare, si fermano (sfidando le multe)

Lo sciopero proclamato e rimangiato, in attesa che altri decidano per loro. Mentre in campo si baciano e si abbracciano, come se il calcio fosse su un altro pianeta

Coronavirus, i calciatori non sono vittime. Se non vogliono giocare, si fermano (sfidando le multe)

Quando ancora si parlava solo di pallone, e le rivolte si consumavano nella quarantena di uno spogliatoio, l’avrebbero chiamato “ammutinamento”. Ma l’autunno caldo del Napoli è una mezza stagione fa, non esiste più. Questo è il nuovo mondo del coronavirus, in cui tutti invocano una presa di responsabilità altrui evitando di provvedere in proprio: i calciatori vogliono scioperare, ma poi alla fine si tirano indietro pretendendo che li fermino altri. Da soggetto attivo a passivo, in mezzo c’è un mare di implicazioni che valgono o meno il pubblico ludibrio e la sanzione pecuniaria.

Lo sciopero coatto, almeno per questo weekend, i giocatori non l’hanno ottenuto. Sono scesi in campo sballottati tra l’esigenza del panem et circenses, e l’isteria della faida tra Lega, tv, Figc e governo. Ma hanno passato la domenica a lamentarsene, rivendicando la mancanza di sicurezza, il rischio contagio, l’incredulità per la situazione. Di più: avevano pure deciso di fermarsi, poi col comunicato già trapelato si sono rimangiati tutto. Anche per una vile ragione di soldi: hanno capito che sarebbero andati incontro a conseguenze economiche, diventando passibili di una richiesta di risarcimento danni da parte dei club, della Lega e delle tv titolari dei diritti di trasmissione. Da queste parti, in piccolo e con altri presupposti, ci siamo già passati: l’ammutinamento e le multe, il tormentone mai sfumato della stagione napoletana. Ha fatto evidentemente, a suo modo, scuola.

Ma in ogni caso il tira e molla dei calciatori ha ottenuto l’effetto di indebolirne la posizione, già di per sé traballante. Il presupposto morale della categoria di lavoratori che si ferma per paura del contagio si presta meravigliosamente alla repulsa sociale. E che dovrebbero dire gli operatori sanitari? Gli autisti del trasporto pubblico? Tutti quelli che non possono usufruire del lavoro da casa ma che continuano a lavorare nonostante tutto? Damiano Tommasi s’è ritrovato, alla fine della domenica convulsa, più solo sul fronte della battaglia di principio. Con i giocatori che a corredo delle manfrine codificate – non ci si dà la mano allo scambio dei gagliardetti ecc… ecc… – hanno fatto come se le disposizioni ministeriali non esistessero: baci e abbracci nel tunnel prima di entrare in campo, esultanze orgiastiche ai gol, mitragliate di sputi sul terreno di gioco. Con qualche buffonata polemica per chi ha l’esposizione mediatica adatta, tipo Ronaldo che dà il cinque agli inesistenti inservienti che di solito accolgono le squadre all’arrivo allo stadio, o che saluta il pubblico fantasma. In panchina il metro di distanza legale non esiste: tutti insieme appassionatamente.

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Con la giornata in pieno svolgimento, Tommasi era in tv (a 90esimo Minuto) a dire che “Il messaggio che il mondo del calcio deve dare è che in questo momento non si può giocare a calcio, toccarsi, avvicinarsi. Tutti dobbiamo fare qualcosa, avere una vita sociale diversa, cambiare il modo di allenarsi, di viaggiare, di stare in una città che non è la tua. Questo è il messaggio”.

Se erano preoccupati per la loro incolumità, o per l’esempio da impartire, proprio non s’è visto. Ma d’altra parte è comprensibile: il calcio è uno sport di contatto, ed evitare di darsi la mano prima di marcarsi in area al primo calcio d’angolo è un non-sense. Fa il paio con le zone rosse dalle quali si può uscire previo autocertificazione di buona salute. O con il ministro dello Sport che un giorno vuol giocare a porte aperte, poi a porte chiuse ma con la tv in chiaro, poi che non si giochi affatto, minacciando un decreto per fermare tutto mentre ne approva un altro che autorizza il contrario.

Il punto è che il panorama riassunto dal weekend del calcio italiano è avvilente: tutti ad arringare, ognuno preso dalla foga che l’altro intervenga, schivando e colpendo, in una girandola di “tocca alla Lega, tocca al governo, tocca ai calciatori” che ha prodotto alla fine una poltiglia indefinita di non-decisioni. Il mondo del pallone ha ribadito la sua extraterritorialità, il distacco dalla realtà, il fuso orario rispetto alla cronaca. L’ammutinamento è una cosa seria.

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