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“Natale in casa Cupiello” del 1962 ci mette a nudo, è come una partita a porte chiuse: nessun suono copre le bestemmie

“Natale in casa Cupiello” del 1962 ci mette a nudo, è come una partita a porte chiuse: nessun suono copre le bestemmie

Analogamente a quanto accaduto per la partita del Napoli a Bruges disputata a porte chiuse – la quale, come in un esperimento in una sala di incisione, ci ha permesso di ridurre progressivamente a zero la traccia dei nostri sentimenti più chiassosi lasciando emergere e risuonare solo la fatica degli uomini sul campo, il rumore sordo dei contrasti, i richiami secchi dell’allenatore e le bestemmie finali – in questi giorni di feste ricordevoli noi napoletani potremmo provare ad evitare di guardare il Natale in Casa Cupiello a colori del 25 dicembre 1977, quello col Tommasino del grande Luca da poco scomparso, e preferire la versione del 15 gennaio 1962, in bianco e nero e con un sublime Pietro De Vico. Poco mainstream, si direbbe oggi, ma precedente quella più famosa, proprio come precede sotto traccia i nostri umani schiamazzi di tifosi la tensione fisica e nervosa di quegli undici che incitiamo sul campo ogni santa domenica.

È uno sforzo, tutto sommato contenuto, che può servire a uscire dalla opaca campana di vetro del passato in cui ciascuno tende naturalmente a sgattaiolare in questi periodi dell’anno. La versione in bianco e nero la si trova con qualche difficoltà, la propone ancora la teca Rai in questo streaming così singhiozzante da sembrare anch’esso giungere da qualche lontano borgo fiammingo; una versione troppo poco accademica, troppo priva della mitologia napoletana di largo consumo. Eppure è proprio quella commedia, solo con un nome diverso, un po’ come si adoperano Bruges e Brugge per indicare la medesima città sulla mappa.

La versione del ’62 è la scarnificazione di quella che tutti noi abbiamo nella testa sin dalla nostra infanzia. È Natale in Casa Cupiello recitata a porte chiuse. Va via la crominanza e si sente il grido di dolore del tackle. Finalmente liberi dagli orpelli folkloristici si può osservare l’intelaiatura grezza dei temi trattati e la disillusione magistrale adoperata per raccontarli. I personaggi non si imbacuccano di buone maniere ma sputano il cinismo fuori dai denti senza remore. E così come abbiamo scoperto a Bruges le urla del vero Sarri che cazzéa “l’altro centrale lontano sessanta metri”, in questa casa Cupiello scopriamo che Lucariello non è il dolce vecchietto dei nostri ricordi ma un familista pavido ed incallito, un signore che si sveglia tardi la mattina sudando freddo per via di un incubo terribile vissuto la notte – “Ho sognato che lavoravo” confessa alla moglie, un particolare che nella versione a colori manca –; non solo uno sfaccendato, quindi, ma un disoccupato professionista con la protervia della più bieca ipocrisia, il cui presepe è vile, ha il sapore amaro di una copertura meschina, come spiega lo stesso autore al principio. Lo chiama proprio così, meschino. Luca e Concetta sono i custodi di un passato immobile figlio della legge che prescrive che tutto si ripeta in conformità a quanto si tramanda, e fa niente se la vittima innocente è la figlia Ninuccia, bella, giovane, lettrice di romanzi gialli, quelli che Luca si rammarica abbiano ficcato nella testa della ragazza idee strane e sobillatrici; libri diabolici che lui e la moglie non hanno esitato a mandare al macero (altro particolare di questa versione) non appena Ninuccia è andata via di casa, vittima di un matrimonio combinato dai genitori, una di quelle nozze di cui oggi si legge sui quotidiani in cronaca nera con a corredo l’immancabile editoriale socio-politico che spiega quanto la nostra società occidentale ripudi tali pratiche barbare, in cui si concedono le figlie ad uomini più anziani e ricchi per un vile tornaconto o solo per rispetto dei costumi. Ninuccia lotta disperata e sola, perché le donne del sud sono “nate per camminare più diritte”, allontana da sé la tradizione con un atto rivoluzionario, scassando pastori e enteroclismi, e tenta anche solo per un giorno di riacciuffare nelle proprie mani il destino che le spetta strappandolo a quelle di un padre padrone che si cosparge di falsa debolezza per risultare inattaccabile. Che si mostra debole per rendersi invincibile. Quando gli si chiede che lavoro faccia, Luca avvampa d’imbarazzo mentre si rivolge miserevole e stralunato alla moglie, domandandole: “Conce’, che sono io?” – anche questo particolare, nella casa Cupiello del ’77 non ci sarà. Ed il suo “uomo di fiducia” non è solo una risposta rabberciata. È una definizione succinta ed efficace del nepotismo più sfrenato, quello dei figli e dei padri che si tramandano i posti fissi senza merito e senza neppure la vergogna di doverlo giustificare. Come quando il Tommasino-De Vico taglia corto e rassicura il padre che lui il suo dovere di giovane in cerca di lavoro l’ha fatto, ha mandato ben due sue foto a Roma, “una a una agenzia cinematografica, e l’altra al secondo canale” (anche questo nella versione a colori manca). Un copione scritto nel ’32 che sembra fresco di stampa. È Napoli. È il mondo.

Il bianco e nero di questa commedia è un viaggio nel tempo, forse a ritroso, o forse nel futuro. Soprattutto è un viaggio nella nostra incongruenza. Quella che a San Gregorio fa vendere la statuetta di Luca Cupiello, ma non quella di Ninuccia. Fa impressione, è immaginifico, come il goal di Chiriches che risuona in uno stadio vuoto. Esiste ma ha solo testimoni lontani. Spiega realtà poco o per nulla masticate, per esempio che quella che Eduardo propone non è la contrapposizione tra custodi dei valori e corruzione dei tempi, ma una lieve passeggiata lungo il lato più sordido della nostra città, che poi è il nostro. Egli è il papà che oggi farebbe la lotta all’ultimo sangue per conservare i canti di Natale nelle scuole dei figli quale estremo baluardo contro gli invasori culturali ma, sotto sotto, e rispettando tutte le regole del buon vicinato, non si strapperebbe i capelli per una ruspa improvvisa al campo nomadi sulla statale. Come direbbero gli autori russi, che così a fondo hanno studiato Napoli, Luca non è un buono ma un bonario. E i bonari sono pericolosi. È lo zietto da vaudeville, banalmente originalotto e dotato di un egoismo irriducibile e un ottimismo viscerale da cinghiale. E la commedia mostra che quell’ottimismo, quel costringersi a rimanere disimpegnato di fronte a quanto accade intorno, è colpevole in modo tragico – perché Natale in Casa Cupiello è una evidente tragedia che il genio assoluto di un commediografo ha saputo nascondere sotto le regole del ridicolo. Sono decenni che Eduardo ci sfida a misurare fin dove vogliamo spingere la nostra piccola cecità. Ci ha disegnato Luca per farcelo amare, e lo abbiamo amato. Eppure Luca è un bastardo.

La versione del ’62 è una delle radici ideali da cui muoverà i propri passi il meglio della commedia italiana – e quindi mondiale -, il cinismo catramoso dei migliori Fantozzi diretti da Luciano Salce, veri e propri inni universali al servilismo e ai crimini che in suo nome si compiono, fino al Monicelli di Parenti Serpenti, che nell’atto finale del film è meno ambiguo di De Filippo e i nonni soli in casa li lascia saltare in aria grazie alla stufa proditoriamente regalata loro dagli amati nipoti. Tutte opere magnificamente comiche.

Poi nel finale, proprio come a Bruges (o forse Brugge), in un silenzio irreale, si alza una bestemmia che proviene dalla panchina. Inaspettata. Quasi fuori copione. Luca si ammala e si smarriscono quelle quattro verità a buon mercato che portiamo in tasca e di cui ciascuno di noi fatica a liberarsi. E capita che la bestemmia che ogni domenica copri col tuo colore, ma che pure esiste – che le si presti orecchio o meno -, la senti risuonare bella chiara, per una fatalità o un motivo inaspettato, perché il calcio si ammala per un po’. Come Luca. E si gioca a porte chiuse.
Raniero Virgilio

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