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Il calcio non è mai stato un’altra cosa se non potere e soldi

Il calcio non è mai stato un’altra cosa se non potere e soldi

Il libro del professor De Ianni (Il calcio italiano. 1898-1981. Economia e potere, editore Rubettino) è un libro di storia economica, ma anche di società, cultura generale, costume. Un libro interessante e completo sia per addetti ai lavori sia per chi si avvicina al calcio da profano, da semplice tifoso. Racconta le dinamiche di potere e di soldi interne al calcio, quelle che ai non addetti ai lavori non sono sempre note e che forse, se fossero note fino in fondo, allontanerebbero tanti tifosi dal mondo del pallone.

Non è frutto di improvvisazione ma di un lavoro di ricerca lungo 5 anni, tra fonti archivistiche, a stampa, giornali, ma anche fonti orali. Dalla ricerca sono purtroppo esclusi gli archivi della Federazione e della Lega, e non per colpa del professore, ed è un peccato, perché avrebbero potuto forse fornire altri dati interessanti.

È un libro che racconta la storia del calcio italiano tra il 1898 e il 1981 cioè dalla nascita della Federazione alla trasformazione del calcio in industria e che soprattutto racconta la storia del calcio nei suoi intrecci con l’economia e il potere.

Il libro si divide in tre parti:

  1. Una parte macroeconomica in cui si guarda al calcio dall’alto: attraverso tabelle molto semplici sono ricostruiti ricavi, spese e deficit (dove i ricavi sono quasi esclusivamente quelli provenienti dal botteghino e dalla quota di contributo Totocalcio dato al Coni e da questo girato in parte alla Figc e le spese sono soprattutto quelle per compensi a calciatori e calciomercato).
  2. Una parte microeconomica (il calcio dal basso) in cui si racconta l’evoluzione nel tempo di tre figure: presidenti, allenatori, dirigenti (e intermediari).
  3. Una parte in cui il calcio è visto da dentro, cioè ripercorrendo la storia dei presidenti federali che si sono succeduti nel corso di più di 80 anni. 

Cosa è interessante di questo libro? Non solo i dati economici, ma anche le tante curiosità che vi sono raccolte. Si scopre, ad esempio, che quando il calcio arriva in Italia, alla fine dell’Ottocento, come sport di importazione e di élite, i posti a sedere (su sedie) costano 1 lira mentre i posti in piedi sono generalmente gratuiti. Il calcio, a quei tempi, coinvolgeva al massimo qualche centinaio di spettatori. Nel 1892 la Gazzetta piemontese scriveva: “Il football ha in sé qualcosa di rozzo, è un gioco al pallone che come lo dice il nome si fa coi piedi, non richiede grande abilità e viene giocato da quante persone si vuole”. Erano molto più seguiti l’atletica e, soprattutto, il ciclismo.

Il calcio cambia a partire dal 1910, quando la Figc crea la Nazionale, poi, col fascismo, diventa sport di massa, usato dal regime per la sua politica del consenso. Con l’entrata in guerra si ha una fase di calo. È negli anni ’50 che il calcio diventa fenomeno di vera aggregazione di massa capace di smuovere la passione di tanti spettatori. Per tutti gli anni esaminati il professor De Ianni offre un quadro completo e molto interessante di incassi e spettatori. L’analisi si ferma al 1980/81 quando compaiono per la prima volta in modo significativo nell’economia del calcio la quota sui diritti tv e quella delle sponsorizzazioni.

Tanto per avere un’idea della crescita dell’economia del calcio, basti pensare che nel 1951 il fatturato della sola serie A rappresentava ancora una quota bassissima del reddito nazionale, lo 0,0379%, di cui i 7/10 provengono dal botteghino e il resto da contributi. Nel 2010/11, invece, la serie A ha un valore di produzione di 1,726 miliardi di euro, pari all’1,33% del Pil: la rappresentatività del calcio nell’economia italiana è cresciuta di 35 volte. Il botteghino, ora, influisce per il 12,45%, mentre le voci principali sono diventate i diritti radio e tv (47,8%), le sponsorizzazioni e il marketing (19%), mentre i contributi rappresentano il 4,9%.

De Ianni racconta della nascita del Totocalcio, nel 1946: man mano che esso entra a far parte delle abitudini degli italiani cresce il conflitto tra Coni e Stato per le percentuali da accaparrarsi, mentre, all’interno del Coni, la Federazione del calcio sostiene che la quota assegnatale dal Coni sia troppo bassa. Si tratta di una contesa che sarà costante negli anni a venire.

Dalla lettura del libro del prof. De Ianni si scopre che il calcio è sempre stato in deficit, ma che per molti anni la crisi del calcio è stata tenuta nascosta. Nonostante fosse la passione di milioni di persone e muovesse tanti soldi, era organizzato in maniera caotica e con regole non rispettate. Si spendeva più di quanto si guadagnasse con onerose campagne acquisti motivate dalla competizione tra le squadre di cui si danno esempi significativi e interessanti come acquisti di allenatori e calciatori stranieri sovra pagati; il deficit era occultato da contributi di soci o di presidenti: ogni presidente ereditava dal suo predecessore un passivo che si sommava al nuovo e veniva poi ceduto al successore.

Il deficit fu di dimensioni ridotte nel primo trentennio per poi crescere con regolarità negli anni successivi. Nel 1931, il deficit, tra serie A e B è di 6 milioni di lire (il valore di produzione di serie A e serie B era di circa 38 milioni di lire, i costi erano 39 milioni). Nel 1941 (il valore di produzione è 63 milioni, i costi sono saliti a 66) il deficit arriva a 21 milioni. Nel 1946 il deficit è di 60 milioni, nel 1951 di 1200, nel 1956 di 2850 milioni. Ciò anche a causa del fatto che il calciomercato viene istituzionalizzato: si stabilisce un periodo dell’anno e una sede fisica (Hotel Gallia a Milano) dove concentrare le contrattazioni. A mettersi in mostra per le grandi spese non sono solo gli squadroni del Nord ma soprattutto quelli del Sud che desiderano diventare grandi, come il Napoli di Ascarelli, Reale e Maresca, la Roma di Foschi e Sacerdoti, la Lazio di Vaccaro e Gualdi.

Nel 1961 il deficit ammonta a 12 miliardi di lire. In pochi anni ha raggiunto il livello del fatturato (12,6 miliardi) mentre l’indebitamento complessivo è addirittura superiore, 13 miliardi. Ogni anno si spende il 20% in più di quanto si guadagna e le cifre sono solo ufficiose. La situazione va peggiorando nel tempo. Nel 1981 i debiti complessivi sono di 130 miliardi.

Ci sono poi i ritratti e la descrizione dei ruoli, delle figure, forse la parte più suggestiva. Innanzitutto i presidenti, che fino alla metà degli anni ’60 non erano i padroni dei club ma solo i loro primi dirigenti. I primi presidenti manager in senso moderno nacquero a Genova: si trattava di imprenditori, ex commercianti, ex allenatori ed ex arbitri, per lo più di origine straniera, che volevano veder prevalere la squadra della loro città di residenza (6 scudetti dal 1898 al 1904). La carrellata di presidenti è affascinante. Tra i tanti ne ricordiamo solo alcuni. Ascarelli, per restare a Napoli, fondatore del Napoli nel 1926 legato alla comunità israeliana e alla massoneria, con una grande disponibilità economica derivante dalla sua attività nel campo dei tessuti.

Renato Sacerdoti, che fece parte con Italo Foschi del gruppo incaricato di procedere alla fusione delle società romane per dare vita alla Roma nel 1927, primo presidente a promuovere il tifo organizzato nel 1931 quando radunò a Testaccio 300 soci della Roma per una festa con calciatori e dirigenti che potesse creare uno spirito partecipativo utile a far crescere l’entusiasmo e il sostegno attorno alla squadra.

Ferdinando Pozzani, detto Generale Po da quando vietò a Maggioli, giornalista del Guerin Sportivo, di entrare allo stadio per aver scritto male dell’Ambrosiana e che aveva un carattere autoritario anche sui calciatori.

Ferruccio Novo, del grande Torino, un presidente innovatore scampato per caso alla tragedia di Superga ma che non si riprese mai dallo shock e che amava occuparsi di tutto, anche della formazione.

Achille Lauro che pur non avendo fatto registrare in 20 anni alcun risultato sportivo rilevante lasciò un segno emozionale molto forte nei tifosi.

E naturalmente Corrado Ferlaino, che ebbe il merito di portare a Napoli come allenatore ‘O Lione, Luis Vinicio e il grandissimo Diego Armando Maradona e che ha sempre sottolineato l’importanza della diplomazia e dei rapporti. Nel libro di Affinita, “L’ingegnere che seppe costruire il miracolo scudetto”, Ferlaino offre una emblematica descrizione di sé stesso: “Io al Napoli davo più di ventiquattro ore al giorno. Sul finire degli anni Novanta con la crisi degli stadi, col calo di interesse, tanti si sono accorti della dittatura di quei due o tre grandi club del Nord. In realtà era così pure quando comprai la società, poco meno di quarant’anni fa. Quei pochissimi hanno sempre gestito mezzi e poteri negati a tutti gli altri. E a noi si chiedeva di essere competitivi e di strappar loro gli scudetti. Io ci ho provato tutte le volte in cui ho potuto. Con Vinicio in panchina, con l’acquisto di Savoldi, con Krol. Poi ho capito che bisognava fare altro. Molto altro. L’ingrediente decisivo delle vittorie è stato l’arrivo di Maradona, non c’è dubbio. Ma avrebbero neutralizzato anche lui se non avessi aggiunto tanta attività diplomatica. Ero arrivato al punto da non avere vacanze mie. Le trascorrevo con la famiglia nelle località preferite dai presidenti federali in carica. Estate o inverno, non importa. In Kenya, in Svizzera. Ho seguito tutti: Sordillo, Nizzola, Matarrese. Era fondamentale intrattenere col potere rapporti stretti, continui. E le necessità non si fermavano lì. Dovevi aver certi rapporti pure con De Mita, con Pomicino. Era il solo modo per esistere davvero”.

E Berlusconi, naturalmente, per il quale il calcio è sempre stato fin dall’inizio uno strumento, veicolo di pubblicità e visibilità per il suo gruppo.

Non solo presidenti ma anche allenatori, dal leggendario William Garbutt, primo allenatore professionista in Italia, a Vittorio Pozzo, che puntava tutto sulla forza del collettivo, il primo motivatore del calcio italiano, che poco credeva all’importanza della tattica, al contrario di Garbutt che ne fece un suo cavallo di battaglia.

E poi Trapattoni, il più rappresentativo della fase di transizione al calcio industria, meticoloso, determinato, simpatico con le sue battute al limite della spettacolarizzazione televisiva che dagli anni ’80 prese il sopravvento.

E accanto ai presidenti, i direttori sportivi e i general managers. Di tutti questi ma soprattutto dei vertici della Federazione, De Ianni traccia un profilo personale e professionale, non mancando di mettere in rilievo i rapporti con la stampa e i giornali, sulle cui pagine alcuni di essi scrivevano per motivi di interesse, con l’economia e con il potere, i do ut des, gli scambi, gli intenti sottesi ad essi, il legame morboso tra calcio, potere e denaro.

È un libro di uno storico economico che è anche un appassionato di calcio e acquista per questo motivo una valenza differente e più alta, perché inevitabilmente offre spunti che non sono solo economici, appunto, risponde a curiosità e domande di un qualsiasi tifoso che voglia scoprire meglio la storia del calcio dalle origini italiane alla trasformazione in calcio industria, in spettacolo, in economia molto più grande e importante. È un libro che va alla ricerca delle origini del rapporto tra calcio e denaro in un tempo in cui il calcio non era ancora uno dei settori più forti e potenti. Ma forse, dopo averlo letto, ci renderemo conto che non è esattamente così, che il calcio, forse, non è mai stato davvero un’altra cosa se non potere e soldi, economia e potere.
Ilaria Puglia (nella foto, Carraro e Italo Allodi)

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