Nel Napoli forse non tutti remano nella stessa direzione. Sembra una squadra all’inizio della fine
La sofferenza non abita più nei parastinchi dei calciatori, ma nei nostri occhi, nei nostri stomaci

Db Torino 18/10/2025 - campionato di calcio serie A / Torino-Napoli / foto Daniele Buffa/Image Sport nella foto: Kevin de Bruyne
Nel Napoli forse non tutti remano nella stessa direzione. Sembra una squadra all’inizio della fine
Calpestati a Eindhoven, come se fosse antani, la regina delle supercazzole.
Una partita che non è solo una sconfitta: è una resa estetica, morale, perfino spirituale. La sofferenza non abita più nei parastinchi dei calciatori, ma nei nostri occhi, nei nostri stomaci, nei pensieri che restano lì, sospesi, dopo il fischio finale.
Il Napoli non ha equilibrio, non ha fiato, non ha idea di come stare in campo. È una barca che ha perso la bussola ma continua a remare per abitudine, come se la memoria del passato potesse bastare per restare a galla. Il modulo immaginifico, quello che doveva essere il segno del genio, si è rivelato un abbaglio tattico: un colpo di pennello diventato macchia, un fendente a cui nessuno sa più porre rimedio.
Perché non gioca Meret? Il portiere dei due scudetti, il leader silenzioso di un reparto che ora sembra parlare un’altra lingua. Qual è il valore aggiunto di Milinković-Savić, se non quei lanci campo-campo tanto cari al vecchio Mazzone?
Siamo a metà ottobre e già tre titolari sono ai box; già il fiato si spezza dopo un’ora di gioco. La squadra è un respiro corto, un’idea lunga a metà.
E allora ci si chiede: Conte sa davvero dove sta andando con la sua idea tattica?
A tratti sembra un condottiero che avanza nel suo stesso labirinto, convinto della rotta ma incerto sulla mappa. Il suo Napoli corre poco, pensa troppo e sente ancora meno. L’intensità, marchio di fabbrica delle sue squadre, si è spenta come una candela in una stanza chiusa.
E poi c’è quella sensazione sottile, quasi impercettibile, che aleggia nel timore che ci guida a pensare che forse nello spogliatoio qualcosa si è incrinato.
Non si vede, ma si avverte. Nei silenzi, negli sguardi sfuggenti, in quella mancanza di entusiasmo che non si può fingere. Forse è solo stanchezza, forse il peso delle aspettative. O forse, semplicemente, non tutti remano nella stessa direzione.
E veniamo a Lucca, lanciato in un palcoscenico che forse non è ancora il suo. Ci mette volontà, sì, ma la scena è grande, e il copione pesante. Non bastano i centimetri, serve la convinzione. Servono occhi che non tremano. Ogni controllo sbagliato diventa un verdetto, ogni scelta esitante un presagio. L’espulsione non la meritava.
Non sembra una squadra che prosegue un ciclo. Sembra una che è alla fine. O, peggio, all’inizio della fine. Sei gol in Olanda, da una squadra mediocre è davvero un punto di non ritorno. O si riparte come un caterpillar o si evapora in un tormento inarrestabile. Forse si è perso dietro la rigidità di un’idea che non le appartiene, o forse ha solo dimenticato chi è e chi ha in campo. Se hai Gilmour e non Lobotka non è lo stesso. Tanto vale schierare Kevin regista visto che più avanti si perde calpestato da Scott e Zambo. il Napoli di Conte non si riconosce più.
E quando smetti di riconoscerti, in campo come nella vita, non serve un modulo per salvarti. Serve un’anima.
Bisogna ripartire da lì, da dove si è costruita la vittoria: dall’umiltà di sapersi proteggere per poi colpire, non dall’arrembaggio senza senso che lascia ferite e smarrimento. Tornare all’essenza, al sacrificio, alla concretezza che aveva reso questo gruppo invincibile. Solo così il Napoli potrà ritrovare se stesso — non un ricordo, ma un nuovo inizio.