Spalletti vada alla Juventus, se lo merita, merita di rinascere

Anche lui è rimasto vittima del delirio di onnipotenza post terzo scudetto del Napoli. Ma è un grande allenatore. E se ha capito i suoi errori, può diventare ancora più forte

Moldova Spalletti

Db Reggio Emilia 09/06/2025 - qualificazioni Mondiali 2026 / Italia-Moldova / foto Daniele Buffa/Image Sport nella foto: Luciano Spalletti

Luciano Spalletti merita di andare alla Juventus, anche se la Juventus non è più né la squadra né tantomeno la società di un tempo. Lo merita per vari motivi. Innanzitutto perché è un grande allenatore. E poi perché non può rimanere nel limbo dove si trova adesso. A fare l’eremita nel suo ritiro toscano e a flagellarsi per gli errori commessi alla guida della Nazionale. Perché Spalletti è così. È lì a macerarsi e forse – aggiungiamo – a non calibrare nemmeno i reali termini della questione.

Luciano ha contratto la malattia che ha colpito praticamente tutti i protagonisti del terzo scudetto del Napoli: quello che banalizzando abbiamo sempre definito il delirio di onnipotenza. Non si è salvato nessuno. Nemmeno Aurelio De Laurentiis l’uomo più terreno che ci sia. Persino lui si fece travolgere e rischiò di mandare a ramengo quasi vent’anni di lavoro. Non si è salvato Cristiano Giuntoli che ha cominciato ad assumere le pose dell’uomo vissuto, di colui il quale la sa lunga e può insegnare calcio a chiunque e dovunque. È finito come sappiamo. Neanche i calciatori si sono salvati. Su tutti Osimhen, ma anche Kim e quelli che sono rimasti. L’anno successivo allo scudetto, sono stati tutti travolti.

Così come non è rimasto immune lui. Nonostante i successi ottenuti in Russia, Luciano Spalletti sentiva su di sé l’etichetta dell’ottimo allenatore che non aveva mai vinto. Hai voglia a dire che non aveva mai avuto la squadra più forte. L’etichetta c’era e il post-scudetto ha dimostrato che lui ne avvertiva il peso. Non aveva mai vinto (tranne la Russia ok) così come non avevano mai vinto De Laurentiis e Giuntoli. E si è visto. La reazione del “pezzente sagliuto” (il ricco non nato ricco, diciamo). Ha cominciato a tenere lezioni sul calcio, come se il suo fosse finalmente un pulpito da ascoltare. Come se avesse desiderato tutta la vita poter insegnare pallone, dire “si gioca come faccio io”. Non era nella pelle quando si precipitò negli studi di Sky Sport a dire che no, il calcio non è semplice. E cose del genere. Sembrava più ansioso di spiegare ai calciatori come vivere (preferibilmente senza PlayStation) che cercare di guidare al meglio un gruppo a offrire il meglio di sé. È come se si fosse fatto prendere dalla smania di fare il curato di provincia. Chissà se qualcuno della sua cerchia gliel’ha fatto notare. Pensiamo di no. E alla fine, ovviamente, è andato a sbattere.

Ma andare a sbattere, non vuol dire buttare tutto a mare. Non vuol dire dimenticare che stiamo parlando di un grandissimo allenatore. Che ci fa tornare in mente le parole di De Mita: «compito della politica è creare politica». Ecco, Spalletti crea calcio, costruisce calcio. La sua Udinese era tremendamente innovativa. Come la sua Roma con Totti falso nueve oltre vent’anni fa. Del Napoli sappiamo tutto, anche se probabilmente anche la narrazione che ha accompagnato quello scudetto gli ha nuociuto. Fu anche una combinazione di eventi positivi: dalla sosta invernale (cui lui era abituato per aver allenato in Russia), al Mondiale cui parteciparono pochi calciatori del Napoli. Lui fu bravissimo. Fece rendere al meglio tanti calciatori: da Osimhen a Kim, a tanti altri. Soprattutto, costruì la mentalità vincente, lo stare costantemente concentrati. A nostro avviso, non è più stato lui quando cominciò a farsi trascinare nel populismo per reazione al conflitto con De Laurentiis. Un professionista, un allenatore professionista, deve sapere che con i presidenti funziona così. A Napoli come al Real Madrid e ovunque.

Le cadute ti fortificano se nei ha compreso il significato e le cause. Luciano Spalletti può diventare un allenatore persino più completo di prima, se ha realmente capito e interiorizzato la lezione. Ora, peraltro, gli stanno tirando più fango del dovuto: come al solito, in Italia, appena cadi in disgrazia, ti tirano le pietre e in prima fila a lanciare ci sono quelli che adulavano più di tutti.

Se la merita un’altra chance il signor Luciano. Gli romperanno le scatole a Napoli, forse anche gli juventini, per quel tatuaggio. A Napoli ha fatto ben più del suo dovere. Ha costruito una squadra vincente avendo ricevuto in eredità un ambiente e una squadra in disarmo dopo Gattuso. Fu lui, da solo, nell’estate dell’aspra contestazione a De Laurentiis, a metterci la faccia e a difendere la campagna acquisti dopo le cessioni di Insigne, Mertens, Koulibaly (cessioni che il popolo bue contestava). Ha portato lo scudetto che mancava da oltre trent’anni. Non può essere prigioniero di non si capisce cosa. Perché tutto è tranne che amore. E agli juventini che glielo chiederanno, basterà rispondere: «se dovessimo vincere la Champions, mi tatuerò pure quella».

In bocca al lupo Spalletti, se lo merita. Tenga meno lezioni da cattedratico, torni a insegnare calcio sul campo: in quello è pressoché insuperabile.

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