Franco Pepe (pizzeria “Pepe in grani”): «I tassisti di Napoli mi adorano: la corsa per venire da me costa 260 euro»

Il maestro pizzaiolo al Corsera: «A Las Vegas, dopo una lezione, ho servito uno spicchio di margherita sbagliata): l’hanno pagata 270 euro a testa, in 300. In Canada una degustazione di sette spicchi delle mie pizze è costata mille dollari a persona».

Pizza Pepe in grani

Il Corriere della Sera intervista Franco Pepe, maestro pizzaiolo di “Pepe in grani” a Caserta. Il 29 ottobre  esce un libro a lui dedicato, «Pizza Chef», la prima volta per un pizzaiolo.

Qual è il suo segreto?

«L’impasto: per un pizzaiolo è la sua identità. L’ho imparato da mio papà Stefano quando gli davo una mano nella pizzeria di famiglia. Vedevo che lui mescolava farine di vario tipo a occhio, lì ho capito che era meglio creare un blend. Ogni tanto avevamo dei problemi, i macinati perdevano qualità: con la sua Opel Kadett quanti giri per mulini ci siamo fatti… Alla fine ho trovato il mio blend, lo Zero Pepe, me lo fa il Molino Piantoni in Franciacorta. Papà sarebbe felicissimo di vedere che ho un impasto mio».

Nomina molto suo padre.

«Lui è sempre con me, io ci parlo. È morto all’improvviso lo stesso giorno in cui è nato mio figlio: emozioni così sono difficili da reggere».

E poi cosa è successo?

«La mia vita è andata in pezzi: era il 1996, avevo 33 anni ed ero insegnante di educazione fisica la mattina, aiuto pizzaiolo la sera. Dopo la morte di papà, con la mamma e i miei due fratelli abbiamo gestito la pizzeria per parecchi anni. Il pizzaiolo ero io: un lavoro usurante, a volte volevo farmi male alle mani per smettere. In cuor mio avevo una visione diversa: volevo fare ricerca, nel giorno libero prendevo l’impasto e andavo a Roma, dallo chef Antonello Colonna, a cucinare. Mi inventavo farciture per la pizza fritta: avrei voluto ricrearle al locale, ma la mia famiglia non era d’accordo. Me ne andai».

Nacque «Pepe in grani».

«Sì, nello stesso paese della pizzeria di papà, in un vicolo disabitato. Ho aperto il 14 ottobre 2012: tutti mi davano del pazzo ma io volevo restituire dignità al mestiere del pizzaiolo. Volevo immaginare un modo di lavorare diverso. All’inizio ero senza soldi: ho chiesto a sette ragazzi che avevo conosciuto insegnando all’alberghiero di seguirmi, ammettendo di non sapere quando li avrei potuti pagare. Oggi sono ancora con me, si sono sposati, hanno comprato casa. La mia famiglia d’origine a quel punto non mi parlava più. Poco dopo anche io e mia moglie ci siamo separati».

Come ha reagito?

«Sono quasi andato in depressione. Ero solo con le mie idee, ho trovato forza in quelle. Abitavo in un appartamento minuscolo sopra la nuova pizzeria, la cucina non l’ho mai usata se non per farmi il caffè al mattino. Vivevo per lavorare: 18-19 ore al giorno. Nonostante il mio stato d’animo, le cose sono partite subito. Quante volte sorridevo a un evento ma dentro di me piangevo: avevo perso tutto».

Oggi Caiazzo è presa d’assalto per la sua pizzeria.

«Ho le prenotazioni bloccate da qui a tre mesi, ogni giorno arrivano persone di 10-12 nazionalità diverse. Facciamo 12 mila coperti e 24 mila pizze al mese, però il lavoro è spalmato su un team di 13/15 ragazzi. I tassisti di Napoli mi adorano: la corsa per venire da me costa 260 euro».

La cifra più folle che ha ricevuto per un evento?

«A Las Vegas, dopo una lezione, ho servito uno spicchio di margherita sbagliata (mozzarella, pomodoro e riduzione di basilico): l’hanno pagata 270 euro a testa, in 300. In Canada una degustazione di sette spicchi delle mie pizze è costata mille dollari a persona».

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