«“Cu’ Caravaggio” parla di rabbia. Di bellezza che nasce nel degrado. Interroga il concetto di giustizia»
Parla Giulia Supino la regista dello spettacolo Cu’ Caravaggio, scritto da Armando De martino, che va in scena questa sera a Porta del Parco

Va in scena questa sera a Porta del Parco Cu’ Caravaggio spettacolo teatrale scritto da Armando De Martino con la regia di Giulia Supino. La regista Giulia Supino parte dal pittore per denunciar la società di questi giorni.
Da dove nasce l’idea di raccontare Caravaggio in questo modo? C’è stato un momento preciso o un’immagine che ha acceso la scintilla creativa per “Cu’ Caravaggio”?
«Tutto è partito da Le Sette Opere di Misericordia. Mi trovavo davanti a quel capolavoro e sono stato colpito non dalla scena nel suo insieme, ma da un dettaglio: un volto affamato che riceve nutrimento da un gesto quasi animalesco, primordiale, eppure profondamente umano. In quell’istante ho visto la potenza teatrale di Caravaggio. Non c’era alcuna idealizzazione, solo un’umanità cruda, disperata e sacra. Ho capito che il suo linguaggio era già teatro: gesti estremi, corpi che gridano, luci che scolpiscono la verità. “Cu’ Caravaggio” nasce da lì, dal desiderio di portare in scena quella tensione tra bisogno e redenzione, tra miseria e misericordia. Non un racconto biografico, ma un attraversamento del suo sguardo».
Caravaggio è un artista che ha vissuto tra luce e ombra, realismo e sacralità. Come ha tradotto questi contrasti nel linguaggio teatrale?
«Ho scelto di non addolcire nulla. Sul palco convivono sacro e profano, come nei suoi quadri. Il linguaggio teatrale è crudo, tagliato con il coltello, fatto di dialetti, silenzi e suoni urbani. La luce scenografica non è mai neutra: squarcia, rivela, giudica. I corpi degli attori diventano carne e simbolo allo stesso tempo. In fondo, Caravaggio non cercava di elevare i soggetti, ma di farli precipitare nella verità, anche quella più scomoda. E il teatro, come l’arte, dovrebbe fare lo stesso».
Dopo Cu’Viviani, in cui è stata forte la tematica del lavoro a nero, e prima ancora Cu’Dante, in cui la sua direzione artistica ha arricchito la visione; Cu’ Caravaggio quali temi sociali evoca?
«“Cu’ Caravaggio” parla di rabbia. Di marginalità. Di bellezza che nasce nel degrado. È uno spettacolo che interroga il concetto di giustizia, di redenzione, di identità. Caravaggio è stato un fuggiasco, un perseguitato, un assassino, ma anche un genio assoluto. Oggi sarebbe uno di quei ragazzi etichettati come “difficili”. Lo spettacolo parla di questo: delle etichette che ci appiccichiamo addosso, e del bisogno disperato di essere visti per ciò che siamo, non per ciò che abbiamo fatto. È uno spettacolo che grida, ma con poesia».
“Cu’ Caravaggio” è anche un progetto che parla di arte come strumento di riscatto e identità. In molte scuole di periferia l’arte diventa un linguaggio per uscire dal silenzio. Pensa che spettacoli come il suo possano contribuire a riaccendere nei giovani la curiosità e la fiducia nel potere dell’arte?
«Assolutamente sì, e lo dico senza retorica. L’arte è uno specchio, ma anche una porta. Quando un ragazzo si vede rappresentato non idealizzato, ma davvero riconosciuto succede qualcosa. Non tutti faranno gli artisti, ma tutti hanno il diritto di sapere che la bellezza può appartenergli. “Cu’ Caravaggio” non vuole insegnare, ma contaminare: con dubbi, visioni, storie che fanno rumore. Se anche solo uno spettatore esce pensando “quella cosa parlava di me”, allora lo spettacolo ha già vinto».
Non sarà uno spettacolo teatrale canonico, anzi, un connubio di stili e forti evocazioni. È un teatro contaminato, di confine. Azzardo o libertà di espressione?
«È entrambe le cose. Ogni contaminazione è un rischio, ma anche un atto di libertà. Il teatro, oggi, non può permettersi di essere chiuso. “Cu’ Caravaggio” mette insieme parola, corpo, immagine, suono, e li fa dialogare in uno spazio non convenzionale. È un teatro che non chiede il permesso, che si sporca, che abita le contraddizioni. Forse non è canonico, ma è profondamente necessario. E quando l’arte è necessaria, allora è viva».