Allegri e Conte gemelli (e fuoriclasse) diversi. A uno piace la puzza della strada, all’altro meno

Da quello sliding doors alla Juventus non si sono più incrociati. Alfieri del calcio all'italiana. Allegri ne va fiero, Conte non lo sopporta.

Conte allegri Libero

AC Milan's coach Massimiliano Allegri (L) and Juventus' coach Antonio Conte are pictured during the Serie A football match Juventus vs AC Milan on October 6, 2013 in Turin. AFP PHOTO / ALBERTO LINGRIA (Photo by ALBERTO LINGRIA / AFP)

Allegri e Conte gemelli (e fuoriclasse) molto diversi

Se escludiamo Carlo Ancelotti, che in Italia non allena da quasi vent’anni, e se Spalletti e Gasperini non si offendono, Massimiliano Allegri e Antonio Conte sono per distacco il meglio prodotto dal calcio italiano degli ultimi quindici anni per quel riguarda gli allenatori. Due prodotti anche del calcio made in Italy. Max ne va orgoglioso, al punto da essersi intestato una battaglia che potremmo definire identitaria. Antonio no, anzi, da sempre risponde a muso duro a chiunque (tanti) provi ad affibbiargli l’etichetta di italianista.

Il loro è un non rapporto. Tutto nasce dallo sliding doors alla Juventus ormai undici anni fa. Quando Conte lasciò improvvisamente in estate, dopo tre scudetti di fila, sulla scia di una frase che lo ha accompagnato per tutta la carriera: “Con dieci euro non si mangia in un ristorante da cento euro”. Frase che ha pubblicamente rinnegato e di cui molto probabilmente si sarà pentito. Fatto sta che Conte, dopo aver ricostruito la Juventus e averla portata a vincere tre scudetti di fila, la piantò in asso nel bel mezzo dell’estate. Lasciando un vuoto che per alcuni tifosi ancora oggi resta incolmabile. Al suo posto, Andrea Agnelli chiamò Max il livornese. Che aveva vinto uno scudetto col Milan di Berlusconi (l’ultimo di quel Milan). Allegri – è storia – arrivò a Vinovo e venne accolto da calci e sputi alla macchina. I tifosi non lo volevano. Lui non fece una piega. E non solo vinse cinque scudetti di fila ma disputò anche due finali di Champions perdute contro le squadre più forti di quel decennio: il Real Madrid di Ronaldo e il Barcellona di Messi.

Allegri, di fatto, fece meglio di Conte. Dettaglio che a nostro avviso incide non poco sul loro non rapporto. Ma sarebbe disonesto intellettualmente non ricordare che quella Juventus era competitiva perché Conte l’aveva ricostruita dal nulla. Così come, nel corso del quinquennio, la Juventus spese eccome, ben più dei metaforici cento euro. Un nome su tutti: arrivò persino Cristiano Ronaldo.

Da quello sliding doors, i due non si sono più incrociati. Si sono guardati al finestrino quella volta e poi più niente. Allegri ha fatto la storia della Juventus. Anche Conte ovviamente ma poi si è sperimentato decisamente di più. Ha raccolto (e vinto) tante sfide. La Nazionale. Il Chelsea. L’Inter. Il Tottenham (che portò in Champions). E infine il Napoli. Acciughina è rimasto sempre lì. In Italia. Tra Torino e Milano. Non si è mai messo in gioco all’estero, nemmeno quando a fargli la corte fu Florentino Perez. È dura stabilire quanto sia indolenza, pigrizia, e quanto una insospettabile insicurezza che ti assale quando devi confrontarti fuori dalla tua comfort zone (il suo rifiuto al Madrid fu la fortuna di Ancelotti ma questa è un’altra storia).

Allegri è incudine. Sa fare molto bene l’incudine. Alla Juventus ha tenuto duro senza dire una parola mentre tutt’attorno stava crollando sotto il peso delle plusvalenze e lui veniva messo in mezzo da una critica feroce che godeva a impallinarlo. Ha sbottato solo alla fine di tutto, con i titoli di coda sullo schermo, dopo la vittoria della Coppa Italia, quando Giuntoli lo aveva fatto fuori per il vate Thiago Motta. I fatti gli hanno dato sufficientemente ragione.

Conte invece è martello. È la personificazione del martello. Nel mondo del calcio non c’è miglior costruttore di lui. Sarebbe uno straordinario chirurgo d’urgenza. Gli piace avere il controllo di tutto. Le cose o si fanno come dice lui, o non si fanno. La metafora è abusata ma è il pulitore calcistico di Pulp Fiction. L’Harvey Keithel della panchina. Arriva, stabilisce le regole, impartisce ordini. E alla fine vince. Oseremmo dire che è il miglior allenatore del primo anno della storia del calcio.

Caratterialmente non potrebbero essere più diversi. Allegri è guascone. È livornese. Sarebbe stato un eccellente schermidore. Ha la loro sfacciataggine (Aldo Montano è di Livorno). Da anni, decenni, porta avanti una personale sfida alla lunare narrazione calcistica contemporanea. Non si prende, o fa finta di non prendersi terribilmente sul serio. Alcune delle sue massime fanno trasalire Antonio Conte. Dal “calcio è semplice” – lo scorso anno in una conferenza disse: «E dire che per qualcuno il calcio è semplice» – all’allenatore l’unica cosa che deve fare è meno è produrre meno danni possibili. Smonta l’epica del tecnico. Da sempre.

Un altro fattore divisivo è Sacchi. L’Arrigo e Conte si adorano. Il vate di Fusignano lo adorava già da calciatore, fu l’unico juventino che portò con sé ai Mondiali del 94. E ancora oggi lo definisce maestro, ha sempre parole di riguardo per Antonio. Con Allegri, invece, i due si sono beccati spesso e volentieri. I duetti televisivi hanno fatto epoca, in uno l’Arrigo si offese per la risposta del discolo.

Il nodo vero è che – piaccia o meno ad Antonio Conte – sono entrambi considerati alfieri del calcio all’italiana. Allegri ne va orgoglioso. Ci marcia, al punto che oggi se la ride quando i suoi detrattori – di fronte al Milan che mostra un gioco brillante (come se fosse la prima volta) – provano un triplo carpiato e dicono che Allegri si è aggiornato, ha studiato, insomma li ha ascoltati. Lui si sganascia dalle risate. Dov’erano quando la sua Juve segnava tre gol al Bernabeu nella serata della spazzatura al posto del cuore, o quando aveva praticamente eliminato il Bayern di Guardiola con una lectio magistralis sul contropiede e poi Evra rovinò tutto?

A Conte invece questo abito sta stretto. Non vuole indossarlo per nessuna ragione. Eppure – qui a Napoli lo sanno benissimo – per tutta la scorsa stagione ha dovuto convivere con accuse di brutto gioco. I tifosi da tastiera e non solo, ci hanno ammorbato per mesi col “non mi diverto”, “mi annoio”, “non si gioca così a calcio”, “Lukaku è un comò” e tutto l’armamentario ideologico dell’incompetente pallonaro. Ha più volte risposto a muso duro a giornalisti che si lamentavano dell’eccessiva sofferenza delle vittorie. Come se le vittorie fossero un pranzo di gala. Sarebbe troppo lungo disquisire di agonismo, acido lattico, resilienza eccetera eccetera. Poi ha vinto (e solo lui avrebbe potuto vincere quello scudetto, come il primo alla Juventus come quello al Chelsea eccetera…) ed è diventato un eroe. Se Pedro avesse sbagliato il rigore del 2-2 in Inter-Lazio, avrebbe fatto fatica a rientrare a Napoli.

In conclusione, Allegri e Conte sono come Noodles e Max. Ad Allegri calcisticamente la puzza della strada piace, gli si aprono i polmoni. A Conte no. Vuole un altro abito per il suo calcio, è più Max. Pretende che gli osservatori capiscano e un po’ si arrabbia e un po’ ci rimane male quando si rende conto che non è così.

Resta il fatto che sono due fuoriclasse e che in Italia andrebbero trattati così.

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