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Il doping all’italiana ricorda il “me too”, denunciano con vent’anni di ritardo

I Tardelli, i Dino Baggio i Brambati, al loro tempo scelsero come comportarsi. Anche durante il processo doping. Ora è francamente tardi

Il doping all’italiana ricorda il “me too”, denunciano con vent’anni di ritardo
foto Giuseppe Celeste/Image Sport nella foto: Zdenek Zeman
I timori e le domande che si fanno Tardelli, Massimo Brambati e Dino Baggio hanno lo stesso sapore delle denunce del movimento “Me Too” che muove accuse fuori tempo massimo. Come ha argutamente sottolineato Ornella Vanoni in una sua recente intervista.

Certo è difficile dire di no. E se non lo si dice per tempo, a “babbo morto” è troppo facile piangere e denunciare.

Ipocrisia e convenienza viaggiano a braccetto. Quando qualcuno non serve più allo scopo, oppure quando non c’è più pericolo di essere ostacolati, ecco che partono denunce, lacrime e si rivivono “traumi”: “anche a me è successo”. Quando invece il “carnefice” serve ancora ce lo si tiene stretto, facendo buon viso a cattivo gioco, per i propri obiettivi, per i propri interessi. Sono tutte posizioni legittime. È la natura umana ad imporcelo. Io do una cosa a te tu dai una cosa a me. La vita funziona così.
Il cervello se lo possono permettere le persone coraggiose e quelle che non hanno ambizione.
Il problema è sempre lo stesso: scegliere. Ciascuno decide per se stesso. Ci sta aver paura di scelte sbagliate. Questi uomini quando era il momento di decidere lo hanno fatto. Non è un giudizio, è una constatazione di ciò che è stato. Scegliere è difficile per tutti. Soprattutto se quella decisione comporta una rinuncia. Dei ragazzi nel fiore dei propri anni, senza le adeguate conoscenze culturali, non sceglieranno mai pensando a cosa viene loro somministrato. Faranno ciò che gli viene detto. Scegliendo senza scegliere.
Dopo oltre vent’anni il tempo delle denunce è scaduto. Sono stati mandati al macello da giocatori? Non abbiamo le competenze scientifiche per poterlo affermare. Il campione non sarà mai significativo, per fortuna.
Eppure all’epoca di Vialli e Mihajlovic i calciatori erano già iconici. Se avessero voluto, avrebbero potuto farsi almeno qualche domanda e decidere. Avrebbero cambiato forse le cose? Non si cambia la natura umana. Ma al processo sul doping i silenzi e gli imbarazzi sono rimasti. Carriere da allenatori, commentatori o soldati semplici del calcio con qualche parola potevano essere messe in pericolo. Il sistema avrebbe espulso “la mela marcia”.
Ora come ora non si può cambiare più nulla.
Essere calciatore oggi è certamente più vantaggioso per la salute rispetto ad esserlo negli anni 70-80, decadi in cui lo sport è passato dal semiprofessionismo al professionismo più spinto, con gravose ricadute sulla salute dei calciatori. Non parliamo solo di doping. In una recente intervista il miglior allenatore della storia, nemmeno tanto ironicamente ha affermato che “lo sport fa male!”.
Ma è il sistema che impone certe scelte. Chi vuol farne parte deve pagare dazio. O meglio scommettere. Chi chiede certezze e sicurezze ad ogni respiro sceglie di non vivere.
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