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«Dino De Laurentiis voleva che mi chiamassi Castel Romano. Scelsi Franco Nero e non mi volle più»

Al CorSera: «Luis Buñuel non mi ha mai chiamato per nome, sempre e solo Nero. Odiava troppo Franco, il dittatore, mi disse che aveva anche tentato di ucciderlo»

«Dino De Laurentiis voleva che mi chiamassi Castel Romano. Scelsi Franco Nero e non mi volle più»

Il Corriere della Sera intervista Franco Nero. Ha esordito al cinema nel 1966 con un ruolo ne “La Bibbia”, di John Huston. Sempre di quell’anno è Django, di Sergio Corbucci, film che lo consacrò definitivamente. All’anagrafe è registrato come Francesco Clemente Giuseppe Sparanero. Racconta la sua famiglia.

«Mia nonna era una gitana dell’Andalusia, in Puglia conobbe mio nonno. Ma io sono nato a Parma, perché mio padre faceva il carabiniere. Vocazione? No, arruolarsi era una via di fuga dalla fame. La guerra ci aveva rubato tutto, ma ricordo bene quando, al cinema, vidi perla prima volta “Il fiume rosso”, il film con John Wayne diretto da Howard Hawks».

Rimase colpito dai cavalli.

«I cavalli, la loro forza. E vent’anni dopo, lo stesso John Wayne mi chiamò per complimentarsi per Django e mi volle dare un consiglio: “Franco, non scegliere mai dei cavalli troppo belli, sennò tutti guarderanno loro e non te”».

Suo padre lo avrebbe voluto ufficiale dei carabinieri, ma lui scelse di fare l’attore. Studiava con Strehler, a Milano. Un giorno fu notato da un fotografo.

«Mi fece tanti scatti e quelle foto finirono sul tavolo di John Huston. Mi volle incontrare, arrivai nel suo hotel, a Roma. Non era da solo, c’erano assistenti, collaboratrici. Un sigaro gli pendeva dalla bocca, mi guardò per qualche minuto e poi mi disse: “Spogliati”. Un imbarazzo tremendo. Lui e i collaboratori mi squadravano con freddezza professionale mentre io non osavo guardarli negli occhi. Ma non potevo sapere che quello era un provino per interpretare il ruolo di Abele ne La Bibbia».

Dopo quel film cominciarono a cercarlo tutti.

«Dino De Laurentiis si incaponì: voleva che come nome d’arte mi chiamassi Castel Romano perché gli stabilimenti si trovavano lì. Mi veniva da piangere. Huston lo convinse a farmi assegnare Franco Nero, ma De Laurentiis se la legò al dito e da allora non mi ha più voluto con lui».

Poi arrivò «Django», di Sergio Corbucci, la vera svolta della sua carriera. Gli spaghetti western si giravano con pochissimi soldi.

«Non c’erano quattrini per le controfigure, quindi io imparai a cavalcare, a sparare, a saltare nelle paludi. Finii in ospedale, perché la pozza di fango dove mi ero tuffato era troppo fredda. Ma anche stavolta ne valse la pena: quando uscì ebbe un successo strepitoso. Fu il primo western vietato ai minori di 18 anni in Italia e di 17 in America, ma divenne un cult: una copia del film è conservata addirittura al MoMa di New York».

Quentin Tarantino gli rese omaggio con «Django Unchained» del 2012.

«Mi ha voluto nel film in un cameo. E poi sa che cosa fece? Sequestrò il cast e fece vedere il film più volte, voleva che lo memorizzassero».

Paul Newman una volta gli chiese un autografo.

«Una volta, a una festa, Paul Newman mi si avvicinò tra il timido e il perplesso. “Che c’è, Paul?”, gli dissi. E lui, alla fine: “Franco, posso avere una tua foto con autografo? È per mia figlia, si è innamorata di te”. Non riuscivo a crederci: uno dei miei miti che mi chiedeva l’autografo. Sono stato fortunato, sì».

I suoi genitori come vivevano il suo successo?

«Quando interpretai il Capitano Bellodi ne Il giorno della civetta di Damiano Damiani, tratto dal romanzo di Sciascia, mio padre fu finalmente felice: in un modo o nell’altro aveva realizzato il sogno di vedermi una divisa da carabiniere ad- dosso. Alla sua morte, mi mandarono a chiamare: papà mi aveva lasciato una piccola somma su un libretto postale. Era quanto io guadagnavo in una giornata di lavoro. Cominciai a piangere, perché per me quella somma era un tesoro».

Com’era lavorare con Luis Buñuel?

«Non mi ha mai chiamato per nome, sempre e solo Nero. Alla fine del film che girai con lui, Tristana, gli chiesi perché. Mi rispose che odiava troppo Franco, cioè il dittatore e mi confidò che una volta aveva anche tentato di ucciderlo».

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