Filippo Timi: «A 15 anni non giocavo a calcio e mi dicevano frocio. Avrei dovuto avere il coraggio di dire sì»
Al CorSera: «Sono stato un adolescente introverso. Papà era buono ma chiusissimo, non spiccicava una parola: stava seduto sul divano, davanti alla tv spenta»

Sul Corriere della Sera una lunga intervista a Filippo Timi, attore, autore e regista. È su Netflix con il film «Il filo
invisibile» e su Sky con la nona stagione della serie «Delitti del BarLume». Si racconta adolescente.
«Sono stato un adolescente introverso. Il ballo era l’attività che mi toglieva, di peso, dalle mie chiusure. Ogni volta che alla televisione compariva un film con Fred Astaire mi illuminavo, e i piedi sotto il tavolo cominciavano da soli a ballettare. A 6 anni dico a mia mamma Luciana che voglio fare danza. Mi accontenta. Il primo giorno di corso mi mettono a fare il gattino per due ore. Il gattino…? Nei miei desideri avrei voluto che la maestra, dopo avermi fatto esibire per dimostrare tutto il mio talento, mi dicesse: altro che Fred Astaire, Filo, tu sei pronto per Broadway! Me ne sono andato sbattendo la porta».
Prima del teatro, ci sono state altre passioni, oltre alla danza.
«Prima ci sono la danza e il pattinaggio a rotelle: ero forte, ho fatto gare, questo spiega le mie cosce importanti. A 15 anni, poiché non giocavo a calcio, mi dicevano frocio. Perché mi mettete un’etichetta, perché lo usate come un insulto, mi chiedevo. Ma soprattutto: perché non ho avuto il coraggio di dire sì?».
Dopo il diploma all’Istituto d’arte si iscrisse all’Università, Filosofia.
«Al primo esame, su Lévi Strauss, prendo 29. Il secondo è su Socrate, che ai simposi si presentava con l’ombretto blu sugli occhi, agghindato in tuniche femminili: un travesta, diciamolo. Mi presento vestito e truccato così. Il professore è il rettore della facoltà: all’inizio fa finta di niente, ma quando a domanda mi ostino a rispondere con domanda (d’altronde è il metodo socratico), mi caccia. La mia Università finisce lì. Il problema è che io non volevo studiare Socrate, volevo incarnarlo».
Parla dei suoi genitori.
«Papà era un uomo buono ma chiusissimo, non spiccicava una parola: stava seduto sul divano, davanti alla tv spenta. Mamma mandava avanti la casa con la grinta di una leonessa. Forse mi sono preso in carico la loro voglia di comunicare…».
E del suo modo di amare se stesso.
«Sono innamorato di me stesso. Prima amavo solo il lavoro, ora provo a dare un senso a tutto. Mi sacrificavo: non mangiavo, non dormivo. Sto davvero cercando di volermi un po’ più bene. Affronto il lavoro in maniera meno disperata. È come se avessi finalmente capito che l’inferno esiste; esiste anche il paradiso, però dura un attimo».