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Gli anni napoletani di Maradona tradotti in musica, lo spettacolo dei Valanzuolo (padre e figlio)

Debutta domani a Villa Pignatelli “Sine Diez, musica per piedi innamorati”. «Il racconto comincia il giorno della morte. Con mio figlio ci mettemmo in macchina, in silenzio, e andammo allo stadio»

Gli anni napoletani di Maradona tradotti in musica, lo spettacolo dei Valanzuolo (padre e figlio)

Si chiama “Sine Diez, musica per piedi innamorati” lo spettacolo dedicato agli anni napoletani di Diego Armando Maradona che debutterà l’8 luglio a Villa Pignatelli, nell’ambito della rassegna “Musica in villa”. Un tributo intimistico al Pibe de Oro attraverso le parole e la musica di un padre e un figlio legati da un rapporto viscerale con il Napoli e con Napoli. Il testo dello spettacolo è di Stefano Valanzuolo, la tromba è quella di suo figlio Enrico. Insieme a loro, alla fisarmonica Nino Conte. La voce narrante è dell’attore Paolo Cresta.

Abbiamo chiesto a Stefano Valanzuolo di raccontarci come è nata l’idea dello spettacolo.

«E’ accaduto dopo la morte di Maradona, tra novembre e dicembre. Ho voluto mettere insieme le mie due passioni, musica e calcio, in uno spettacolo che parlasse di musica facendo riferimento al calcio. Per me parlare di calcio vuol dire parlare di Napoli. Il titolo è una dichiarazione di intenti: è un modo per colmare il vuoto lasciato dall’assenza del Diez. Senza di lui e i ricordi che lui suscita, resta un sentimento di nostalgia e malinconia».

Come è strutturato lo spettacolo?

«E’ una sequenza di quadri, ognuno dei quali corrisponde ad un ricordo e ad uno dei sette anni di Maradona a Napoli, fino al ’90. Il 1991 è l’anno che se ne andò, l’ho tralasciato. Lo spettacolo ha un prologo che chiamo triste e un epilogo leggero, ambientati entrambi nello stesso giorno, il giorno dopo la morte di Maradona, il 26 novembre. È lì che comincia il racconto, con me e mio figlio che andiamo di pomeriggio fuori allo stadio San Paolo, per dare un segno della nostra presenza, cercando chissà che cosa. Già in macchina inizia una serie di ricordi che si sostanziano in sette quadri. Poi, è come se il ricordo svanisse, e si torna alla realtà».

Ci siete andati davvero allo stadio, quel giorno?

«Sì, volevamo semplicemente esserci, non saprei spiegare perché. In certi casi bisogna esorcizzare il dolore con il resto della tribù. Mi riferisco a quello che diceva Pasolini dei napoletani: “I napoletani sono una tribù inscalfibile”. Ecco, attraverso la condivisione si esorcizza il dolore, la condivisione apre la mente ai ricordi personali».

Quali sono i ricordi – e i quadri – che ha scelto?

«Tutti ricordi di eventi ai quali sono stato presente. Per il 1984 ho scelto il 5 luglio, data della presentazione di Maradona a Napoli. Per il 1985 la punizione segnata contro la Juventus quando vincemmo 1-0. Il 1986 è raccontato attraverso il gol all’Inghilterra. Il 1987 è l’anno dello scudetto. Il 1988 quello della sconfitta, ancora oggi inspiegabile. Lì si è vista la grandezza del giocatore, della persona e dell’uomo Maradona. Il 1989 è ricordato con il riscaldamento in campo prima della partita contro il Bayern Monaco sul motivo di Live is life. Il 1990 è l’anno dello scudetto ma soprattutto quello della finale del Mondiale in cui lui rivolgendosi al pubblico che lo fischiava si lasciò andare al labiale “hijos de puta”. Tutto è scandito dalla musica. Diventa una specie di suite di più di un’ora».

Perché ha deciso di scrivere questo testo?

«Perché era un momento in cui su Maradona si era scritto tantissimo. Tutti ne parlavano in termini di autoreferenzialità, con questo spettacolo io rivendico di non averlo mai visto se non sul campo, di non averlo mai incontrato. Eppure, per me è stato un fratello, un amico e un compagno più che se lo avessi conosciuto di persona. Ho provato a raccontare quanto mi è stato vicino e quanto io penso di essere stato vicino a lui, nell’unico modo in cui potevamo: lui in campo e io da quest’altro lato».

Le musiche che accompagnano il testo sono tutte scritte per l’occasione?

«Alcune cose sono originali, altre di repertorio, riarrangiate per tromba e fisarmonica. Ci sono anche musiche che non c’entrano niente da un punto di vista di carta di identità, ma che abbiamo scelto per una questione di atmosfera, come Gato Barbieri».

La passione per il Napoli e Maradona la condivide con suo figlio Enrico, trombettista. Lui non ha vissuto i suoi ricordi.

«No, non li ha vissuti, è nato nel 93. Ma il giorno dopo la morte di Maradona, quando andai allo stadio con mio figlio, mi colpì vedere un sacco di altri padri coi figli, tutti in silenzio, molto decorosi e dignitosi. Mio figlio Maradona non lo ha mai visto ma non ho mai avuto bisogno di raccontarglielo. Il calcio è una delle poche cose in cui può esistere un legame viscerale di passione che passa attraverso le generazioni. È difficile da spiegare a chi non lo vive. La mia prima partita è stata Napoli-Atalanta, il 1 ottobre 1966, 1-0 con gol di Altafini. Avevo 5 anni. Andai allo stadio con mio padre, e da quel momento non ho più smesso. All’inizio ci andavo saltuariamente, poi, dal 1972 sono stato presente ad ogni partita. Per me andare allo stadio è la norma. Mio figlio ha assorbito la mia passione nello stesso modo che è capitato a me con mio padre. Anche io l’ho portato allo stadio a 5 anni, nell’anno orribile in cui finimmo in serie B. Ma poiché non ammettevo che potesse cominciare dalla B, lo portai a vedere l’ultima partita di serie A, a retrocessione ormai consolidata. Era un Napoli-Bari. Da allora non si è più staccato. Il bello di tifare per una squadra di calcio è che generazioni diverse si ritrovano attorno a questa passione senza bisogno di spiegare. Anche da questo nasce lo spettacolo: dall’idea di scambiarci, io e lui, una sorta di testimone appassionato. Di farlo con un linguaggio che per lui è quello del suo lavoro – la tromba – e per me è quello dell’altra mia passione, la musica».

Ci racconta quel pomeriggio in cui siete andati insieme in pellegrinaggio allo stadio, dopo la morte di Maradona?

«Ci mettemmo in macchina senza dirci niente. Come se fosse una cosa normale. Avevamo entrambi la sensazione che quello era l’unico posto dove stare in quel momento, anche solo per 30 minuti. E’ qualcosa che non ha bisogno di parole, di essere raccontato e scritto. È meglio dirlo con la musica. Non puoi spiegare perché tifi per una squadra o per un’altra, perché senti la pelle d’oca durante una partita. Se cerchi di spiegarlo a uno che non ha la tua stessa lunghezza d’onde, rischi di fare la figura del fesso. Se lo spieghi a parole rischi di essere presuntuoso, è talmente istintivo il ragionamento, che la musica è la cosa più giusta per accompagnare il racconto».

La voce narrante è quella di un attore, Paolo Cresta.

«Sì, e ne sono molto contento. E’ un caro amico, un simpatizzante, ma non un tifoso sfegatato. Vede il calcio da lontano, è abbastanza distaccato da poterlo interpretare senza enfasi. Perché, vede, la retorica ci deve essere, perché la parte emotiva del calcio è necessariamente anche retorica, altrimenti ci si ferma alla cronaca, la retorica invece rende l’eroe, crea il mito, ma non ce ne vuole troppa. Non mi interessava, in questo spettacolo, parlare di droga o delle altre vicissitudini di Maradona. Se parli di Achille o Ulisse, a proposito di mito, mica vai a raccontare cosa facevano una volta tornati a casa. Ti interessa l’eroe a tutto tondo. Fermo restando che ho sempre pensato che la persona Maradona era quella che vedevo nella sua interezza, non chiudevo mica gli occhi: faceva parte di lui, non l’ho mai giudicato».

Come si aspetta reagirà il pubblico?

«Sono curioso di scoprirlo. E’ una cosa talmente personale che credo possa essere condivisa facilmente da quelli che hanno lo stesso tipo di passione, ma mi incuriosisce anche come possa toccare quelli che non ce l’hanno: potrebbero considerarlo una bizzarria. Sono contento di aver tirato fuori un po’ di tossine dolorose accumulate in quei giorni, non pensavo di reagire con quel dolore, come un cretino. Nei confronti di Maradona ho accumulato un debito di riconoscenza che non credo di aver estinto, ma che almeno ho un po’ ripianato. È un modo per rendere giustizia a chi il debito lo ha reso possibile. Come se dicessi: voglio dire tutto il bene possibile di lui perché mi ha fatto del bene. Quando parlo di debito, parlo di debito verso il Napoli, il calcio, il tifo, che per me è un valore aggiunto. Lo considero un bel regalo. Mi considero un privilegiato, avere questo tipo di passione così tenace, che non viene meno neanche in momenti come questo, di buio, in cui è stata messa a rischio la passione, a causa dell’overdose televisiva, del modo in cui sono trattati i diritti dei tifosi. Mai come adesso, il fatto di resistere è un privilegio. Ci teniamo stretta la nostra diversità. È quasi un proclamare l’appartenenza ad una casta. È come se rivendicassi l’appartenenza a un mondo, come se volessi quasi passare un testimone, condividere il racconto con mio figlio, attraverso la musica. È un ricordo, un sogno, un omaggio, un momento di condivisione. Anche un gioco. Voglia di giocare con l’attore, i musicisti».

Ha detto che per lei scrivere questo spettacolo è anche un po’ parlare di Napoli.

«Sono due i riti laici che preferisco: il pallone e il concerto. Attraverso lo stadio racconti anche la gente, è un modo per raccontare la tribù di pasoliniana memoria. Di far vedere e rievocare la parte di città che trent’anni fa, ai Mondiali, sentivi tifare orgogliosamente Argentina senza vergognarsene, perché il calcio è una questione di ormoni e riconoscenza, non di passaporto. È quello che ti dà i connotati di un popolo».

Non trova che oggi quella tribù sia un po’ più scarna, e che il calcio più che aggregativo sia diventato divisivo?

«La tribù ha anche bisogno dei luoghi di aggregazione, come gli stadi, senza rischia di sfilacciarsi. Devo dire che ho sempre prediletto le partite con 20mila persone, che vanno a vedere Napoli-Bologna, piuttosto dei 60mila di Napoli-Juventus, con gli occasionali. Perché in quel momento ritrovi la tribù intorno al rito consumato per pochi ma sei certo che quei pochi abbiano realmente l’adesione all’argomento. Sì, in questo momento il calcio è divisivo, non c’è una partecipazione di tipo istintivo. È meno emozionante ma quello che trovo bello è che posso ricordare di essermi commosso o esaltato fino alle lacrime per un gol segnato nella finale di Stoccarda di Coppa Uefa o per un gol che ti fa vincere lo scudetto, ma ricordo di essermi emozionato anche per un gol sul campo neutro del Benevento contro il Genova in serie B. L’emozione non ha un peso che dipende dal contesto esterno, ma da quello che provi tu, è una grande magia del tifo, non del calcio. La tribù si è un po’ assottigliata anche per un fatto generazionale. Le ultime generazioni hanno avuto un approccio al mondo del tifo meno naturale, meno istintivo, quindi la tribù si è assottigliata anche un po’ fisiologicamente, per fatti generazionali, ma siamo resistenti. La tribù come comunità devota si è assottigliata nella sua forma militante e ingenua, non nella sua forma complessiva, ci sono ancora milioni di tifosi del Napoli ovunque, ma quelli che ancora intendono il calcio come quello vissuto a contatto con il campo, andando a seguire la partita, credendo in quello che succede anche quando è meno trasparente, è più piccola ma resiste, ed è quella alla quale mi piace parlare con un racconto del genere. E’ personale ma può essere apprezzato da quelli ai quali può venire in mente “anche io lo penso così”, “anche io una volta ho fatto questo”. E’ difficile spiegarlo a chi non lo vive. E’ una pulsione a cui è difficile resistere, può succedere di tutto ma poi ti ritrovi a soffrire, ti ritrovi a vivere una giornata di mutismo quando il Napoli prende gol contro il Cagliari. E se provi a spiegarlo a qualcuno che non lo ha vissuto ti risponde che sei solo uno sciocco».

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