Su Repubblica. «Non ho solo paura di ammalarmi per colpa loro, ma ho paura che loro pensino, o sappiano, che io mi sarò ammalato per colpa loro»
Molte cose sono cambiate con l’arrivo del Covid, scrive Francesco Piccolo su Repubblica. Ma una in particolare, che gli sembra intollerabile:
“la pandemia mi ha insegnato ad avere paura dei miei figli”.
Figli in età scolare, naturalmente, uno all’università e l’altro alle medie. Piccolo parla del secondo.
“Quando torna a casa dico: togliti le scarpe, lavati le mani. Lui sbuffa e dice sì. Poi si avvicina, mi abbraccia e io dico, scansandomi: ti sei lavato le mani? Ma sì!, dice lui. E così mi lascio abbracciare mentre penso: e se non le ha lavate? E se le ha lavate male? E se mi sta spalmando il virus?“.
Fino all’arrivo della pandemia, erano i figli ad aver paura dei genitori, e di lui. Ora invece è tutto cambiato. Lui è più
“mite, malinconico, molto pedante. E un po’ distaccato; cerco di non esserlo ma l’istinto mi porta a star lontano da loro”.
Quando il figlio invita un compagno di scuola a casa, a studiare,
“Io cerco di tornare a casa quasi sempre dopo che il compagno di scuola se n’è andato. Apro tutto, ma la puzza di ormoni di due ragazzini preadolescenti è più difficile da scacciare del pesce fritto della domenica, e dentro quegli ormoni sperperati nella casa saranno rimaste di sicuro tracce di virus. Il giorno dopo, mio figlio va a scuola e poi a basket (all’aperto), il giorno dopo ancora va a scuola e poi a lezione d’inglese. E io penso a tutte le probabilità che ha di portare a casa il contagio. Intanto leggo sui giornali, come tutti, ogni giorno, tutte le interviste ai vari esperti, che unanimi dicono: ci si contagia soprattutto in famiglia“.
La figlia universitaria, che vive a Bologna, invece, “io la ritengo, semplicemente, un’appestata”. Racconta che ogni volta che la chiama sente in sottofondo tanti rumori.
“Le chiedo: ma dove sei? E dove devo stare, dice lei, a casa. Non è a casa, a meno che non abbia una app che ripropone i rumori delle strade piene di ragazzi vocianti e di stoviglie nei bar. E se non è a casa, penso che sono fortunato che stia a Bologna e non qui. E vorrei che questa fortuna venisse decisa per decreto: tutti i giovani studenti (secondo me non solo universitari, ma dalla scuola materna in su, però forse è chiedere troppo) dovrebbero vivere e studiare in una città sufficientemente lontana. Dovrebbero stare in un’altra regione e dovrebbero prendere la residenza, in modo che non possano più, fino alla fine della pandemia, tornare a casa a infettare i loro genitori”.
Perché se i ragazzi si ammalano poi guariscono facilmente, scrive, ma per gli adulti non accade lo stesso.
“È questo il nuovo groviglio contorto e innaturale di sentimenti che ha creato il coronavirus: avere paura dei propri figli più che di ogni altro essere umano al mondo; sentirsi al sicuro soltanto se i propri figli non ci sono, sono lontani”.
Il racconto di Piccolo è delizioso, anche se tristemente condivisibile. E’ troppo lungo per riportarlo in toto. Come la conclusione, che riportiamo.
“L’amore per i figli si esprime anche in questo modo, attraverso questa paura; perché non ho solo paura di ammalarmi per colpa loro, ma ho paura che loro pensino, o sappiano, che io mi sarò ammalato per colpa loro. Ho paura che loro sentano il peso dell’essere la causa di quello che è successo. In fondo non ho davvero paura di ammalarmi; ma non voglio ammalarmi per colpa di un figlio”