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Luca Manfredi: «Papà metteva nei personaggi la sua esperienza. Aveva il dna dell’emigrante»

A La Verità: «Era il più americano della sua generazione. Invidiava il talento di Sordi ma diceva che era un peccato non avesse studiato. Tognazzi? Ci fu una frattura perché Ugo era sempre molto goliardico» 

Luca Manfredi: «Papà metteva nei personaggi la sua esperienza. Aveva il dna dell’emigrante»

La Verità intervista Luca Manfredi, figlio di Nino, di cui quest’anno ricorre il centenario della nascita. E’ regista e sta realizzando un documentario per Rai e Sky Arte sul padre. Lo racconta come un uomo «molto esigente», come gli attori americani.

«Ritengo che mio padre sia un po’ il più americano della sua generazione, quello che forse più di tutti spariva dietro la pelle dei personaggi che interpretava. Nino diventava il portantino di C’eravamo tanto amati, il cameriere di Pane e cioccolata…».

Nei personaggi che interpretava metteva tutta la sua esperienza di vita.

«Metteva nei personaggi la sua esperienza. Il cameriere di Pane e cioccolata è un retaggio delle sue origini. Noi veniamo da una famiglia di emigranti: suo nonno è stato 32 anni in America sotto terra a scavare il carbone. Nino aveva proprio il dna dell’emigrante, quindi ha trasferito nei personaggi tutte le sue esperienze, anche molto dolorose, dell’infanzia, la fame, la povertà, la malattia in sanatorio».

Era stato ricoverato tre anni e mezzo al Forlanini, racconta Luca.

«Durante il fascismo, andò a fare una pedalata con la pesantissima bicicletta da bersagliere ai Castelli romani, si beccò una pleurite bilaterale, che poi si trasformò in tubercolosi, e fu ricoverato in sanatorio. Fu dato per spacciato, poi miracolosamente sopravvisse. Non solo: fu l’unico della sua camerata a uscire vivo e questa esperienza dolorosissima mise in crisi la sua fede. Lui, che veniva da una famiglia cattolica, cominciò a farsi delle domande: “Come mai i miei compagni che andavano tutti i giorni in cappella a pregare sono morti e io, l’unico che non ci andava, sono stato risparmiato?”. Quello è stato lo spunto forse del suo film più biografico, Per grazia ricevuta, che è proprio sulla ricerca di Dio, e anche sulla superstizione e sulla cattiva educazione religiosa».

Il documentario si chiamerà Uno, nessuno, cento Nino, racconterà le mille sfaccettature di Manfredi.

«Racconta la poliedrica personalità di mio padre, una personalità molto complessa e difficile da decifrare. Nino era uno e centomila, sicuramente non nessuno. Mia madre mi ha detto: “Io mi sono molto aiutata, in 50 anni di vita insieme, con i suoi personaggi per conoscerlo».

Non era un padre presente, dice.

«No, ha dedicato la sua vita al lavoro. Sono un suo grandissimo fan come artista, non posso esserlo altrettanto come figlio: è un padre che mi è mancato tantissimo. Quando lui partì per la tournée di Rug a n tino nell’America del Nord e del Sud, i miei genitori mi lasciarono sei mesi dai miei zii in Sicilia. Avevo cinque anni. Credo di aver passato il periodo più bello della mia vita. Mio zio Alfio, antiquario a Taormina, mi portava sempre con sé: a fare colazione, al suo negozio, a fare il bagno a Mazzarò… nessun uomo aveva dedicato così tanto tempo a me. Quando mio padre è tornato dall’America, non volevo più tornare a Roma».

Racconta i rapporti del padre con i grandi del cinema. Sordi, ad esempio.

«Alberto ha frequentato molto casa nostra, ogni tanto veniva a pranzo. Mio padre una volta disse che Sordi era dotato di un talento naturale molto superiore al suo, “peccato che non abbia mai studiato e approfondito questo talento”. Mio padre invece si definiva, forse un po’ immodestamente, uno di talento medio che ha raggiunto buonissimi risultati con lo studio, con l’Accademia, con Orazio Costa, con i grandi insegnanti che ha avuto».

L’amicizia con Tognazzi si ruppe per un differente modo di lavorare.

«Sono sempre stati amici, poi ci fu una frattura tra di loro perché Ugo era sempre molto goliardico, caciarone, quindi era distante da Nino nel modo di lavorare. Mio padre era un soldato: se aveva la convocazione sul set alle otto, lui arrivava alle sette e mezza per paura di arrivare tardi e sapeva non solo le sue battute, ma anche quelle degli altri. Un giorno che stavano facendo un film assieme, Ugo arrivò sul set che non sapeva nulla di quello che dovevano fare. Durante le prove, mio padre cominciò a dire le battute sue e anche quelle di Ugo che faceva scena muta, dopodiché interruppe le prove e disse: “Vabbè, adesso vado al camper. Quando questo signore ha imparato la sua parte, mi chiamate”. Ci fu una frattura nell’amicizia che si è ricomposta anni dopo, quando Ugo lo invitò a Torvajanica per il suo torneo di tennis. Io ero presente e ci fu una cena della riconciliazione».

E infine Gassman.

«Con Vittorio ha avuto un ottimo rapporto, anche perché Nino gli è sempre stato riconoscente: è stato il primo a dargli fiducia. Vittorio era uscito dall’accademia un paio di anni prima, aveva messo su la compagnia con Evi Maltagliati e venne a scegliere alcuni allievi per fare uno spettacolo, tra i quali anche mio padre. Quando iniziarono le prove, mio padre, che era molto timido, fece scena muta, con grande preoccupazione sia dell’amministratore che della Maltagliati. Dissero a Vittorio: “Ci hai portato un attore che non parla!” e lui lo difese: “No, parla e quando parla si fa ascoltare”. Poi infatti nella seconda serie di prove mio padre riuscì a superare questo blocco».

 

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