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La perenne ricerca su Napoli e la sua autoreferenzialità

Gli ultimi lavori di Demarco e Macry. Valorizzare i tratti caratteristici della propria identità ma anche un’autorappresentazione infantile e vittimistica

La perenne ricerca su Napoli e la sua autoreferenzialità

Quando si analizzano le vicende storico-politiche della città di Napoli, sembra che sia impossibile non citare la figura dell’ex-sindaco Achille Lauro. Indubbiamente un personaggio che ha segnato – nel bene e nel male – la storia del capoluogo partenopeo e il cui spettro aleggia costantemente.

Da quest’eredità ingombrante è voluto partire Marco Demarco nel suo Naploitation. Napoli, la tradizione e l’innovazione [Guida Editori, 12 euro] per rileggere i fondamenti identitari di Napoli e le sue contraddizioni.

Una città continuamente alla ricerca di un centro di gravità permanente, la quale da tempo immemore si arrovella sui contorni della napoletanità ed i conflitti con lo Stato italiano. A fungere da detonatore è Antonio Ghirelli con Storia di Napoli in cui definisce la napoletanità «un caso tipico di sopravvivenza delle strutture ideologiche alla liquidazione della struttura socioeconomica che le aveva generate»; prosegue poi Raffale La Capria ma, come fa notare l’ex direttore del Corriere del Mezzogiorno, complica la questione introducendo altre categorie – la napolitanità o napoletaneria (degenerazione della napoletanità) – e condensandole ne L’armonia perduta.

Proprio la napoletaneria, che vede in Achille Lauro il principale interprete, rappresenta l’incipit del processo dell’italianizzazione di Napoli. E se in questo processo, si domanda Demarco attingendo a Ghirelli, «Napoli avesse perso più del necessario? In questo caso una responsabilità l’avrebbe non più Lauro, ma l’antilaurismo. […] Per “asfaltare” Lauro, gli antilaurini hanno asfaltato tutta la napoletanità: sia quella precedente il periodo laurino, sia quella successiva».

Intorno a questa disputa si articola la poliedrica identità partenopea ed il suo più controverso esponente politico.

La difficoltà nel ricavarne una definizione univoca, o quantomeno non così conflittuale, emerge anche dell’impossibilità di esprimere «un patrimonio simbolico condiviso». Qui l’autore fa riferimento alla “missione” di Luciano De Crescenzo nel ricercare «l’essenza di Napoli nella storia e anche nello stereotipo». O anche all’idea di Riccardo Muti di mettere in rete le varie realtà museali ed artistiche partenopee, sul modello del Lincoln Center di New York.


In realtà uno dei tratti distintivi della napoletanità è proprio rappresentato da questo eterno vagabondare alla ricerca di un approdo – e da una spiccata irrequietezza genetica – che magistralmente viene raccontato dalla pellicola di De Crescenzo “Così parlò Bellavista”, in particolare nella figura del Professor Bellavista, un napoletano «alla perenne ricerca di sé, che si autorappresenta in continuazione. E il risultato di una napoletanità centrifuga, scritta, vista, ascoltata, e quasi mai condizionata». In alternativa al milanese Cazzaniga che «sa chi è, per questo non sta lì ad autodefinire ad libitum».

In questo contesto emerge la tendenza di una Napoli e di una napoletanità «che viene definita attraverso coppia di opposti. Cioè non viene definita».

Questo continuo peregrinare evidenzia un’ulteriore fragilità che affonda le proprie radici in quella presunta mescolanza tra élite e popolo – un’immagine «oleografica» secondo la definizione Paolo Macry in Napoli. Nostalgia di domani [Il Mulino, 14 euro] – elemento fondante del senso di comunità partenopeo. 
Tale mescolanza fu sancita mediante l’utilizzo comune del dialetto in un periodo – il 1799 e la Repubblica Napoletana – in cui «c’era di bisogno di qualcosa per rimettere insieme i cocci della città».
Non era possibile considerare il dialetto partenopeo, come una molletta di ferro – per usare la metafora di Benjamin ed Asia Lacis, citati da Demarco – in grado di tenere insieme i pezzi. Questo è stato possibile «fino a Lauro, e con Lauro». Dopo, tale debolezza, ha portato ad una proliferazione di “molte” Napoli, «da quella di Cuoco – popolare, ma senza “luce” e “illuminata”, ma senza popolo» – si è giunti «alle cento città di oggi».

C’è però un ulteriore tornante della storia in cui è possibile riscontrare gli elementi di debolezza identitaria napoletana: la difficoltà di accettare gli esiti del Risorgimento e dell’Unità Italia. La storia non si può certamente considerare un moloch, ma il senso di comunità si costruisce soprattutto intorno ad alcuni episodi rilevanti. Il periodo che culmina nel 1861, può essere considerato uno di questi, ma in realtà proprio a Napoli, in anni recenti sono soffiati forti i venti del revisionismo antiunitario, una brezza che ha solleticato una nostalgia mai sopita e ha provato nel permeabile terreno dei ricordi.

Possiamo anche considerare questo exploit come una risposta alle spinte secessioniste e federaliste della Lega Nord. In realtà nell’eterno dualismo tra Nord e Sud, si staglia un altro tratto caratteristico dell’irrisolta identità napoletana: l’irrisolto complesso di inferiorità, mai mitigato, nei confronti dei settentrionali. (Certo il coronavirus nella sua prima fase ha rappresentato una nemesi notevole, mostrando l’impietoso confronto tra i viceré meridionali, su tutti il piglio decisionista di Vincenzo De Luca, ed i governatori-balbettanti del Nord, capofila Attilio Fontana col naufragio del modello lombardo).

Un complesso che non può essere figlio unicamente della somma delle fragilità sopraelencate, ma dell’incapacità di uscire da determinati recinti narrativi e rappresentativi. Ad esempio la napoletanità, scrive ancora Demarco, «non può essere esibita politicamente e non può essere promossa, se non tra evoluzioni intellettualistiche di rara raffinatezza […] la napoletanità ci sta bene quando aiuta a risultare simpatici».

È come se al di fuori dei nostri confini, fossimo sempre alla ricerca di riconoscimento e di approvazione da parte dell’interlocutore. Molti probabilmente sono fermi all’idea che, Pasolini dixit, i napoletani come i Tuareg siano refrattari alla modernità. O ancora impegnati nel duello tra Schönberg e Funiculì Funiculà.

La soluzione per uscire da questo ginepraio si chiama Naploitation: «è una parola macedonia inventata mettendone insieme due: Naples e exploitation (sfruttamento), in modo da avere una variante di blackploitation. Cioè del neologismo che gli americani usano per indicare lo sfruttamento mediatico (exploitation) dell’esseri neri (black) da parte degli stessi neri».

Si tratta quindi di valorizzare i tratti caratteristici della propria identità, esibendo ciò che si è, depurando però il proprio bagaglio da «eccessi ed effetti collaterali», governando gli aspetti più folcloristici e gestendo gli stereotipi. 
La Naploitation appare come un tentativo di ridare smalto, allegria e freschezza ad una napoletanità ormai livida, rivendicazionista e rancorosa, troppo occupata a specchiarsi nella sua invecchiata e trascurata bellezza, invece di coltivarla e curarla; una città troppo impegnata ad identificarsi con Pulcinella e le degenerazioni del pulcinellismo «quelle forme insopportabili di plebeismo che continuano a manifestarsi, come lamentazione costante, l’ammuina e la pratica antica dell’autoconsolazione» citando il Governatore salernitano De Luca. Un altro esempio di come la città sia sempre meglio descritta, e governata, da una sorta di podestà straniero.

Napoli dev’essere in grado di liberarsi degli irrisolti traumi del passato, evitando di chiudersi nell’autoreferenzialità e non arroccandosi in «un mito slegato dal tempo, un’autocoscienza pervasiva», rompendo quella «crosta culturale sedimentata in venticinque secoli» che ha innervato la malsana e «malcelata idea di rappresentare un tipo speciale di umanità. Di costruire una sorta di “universale”.

Allo stesso tempo imparare a tollerare che esistono nella città più bella del mondo storture e imperfezioni, compreso un radicato e onnivoro sistema criminale la cui fascinazione dà luogo a brand. In realtà, anche le veementi reazioni «di risentimento e senso dell’offesa» possono essere lette come «prodotto di un’autocoscienza talmente solida da non ammettere intrusioni critiche. Ma si può pensare anche il contrario. Che tradiscano la necessità di rimuovere un male avvertito come troppo vicino. Che siano cioè la spia di una debolezza identitaria».

La città ha bisogno di sviluppare una reale consapevolezza di sé, dimostrandosi capace produrre un forte senso di comunità intorno – ed è questa la proposta di Macry – ad un sistema culturale, condiviso in grado di dare vita ad una stabile identità. 
Fino a quel momento sarà una «macchina omeostatica» con «le movenze di una sorta di purgatorio», indubbiamente formidabile nel compiacersi e nell’autorappresentarsi, ma tremendamente infantile e vittimistica al contatto con la realtà.

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