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Cecchetto: «Mi ha costruito l’ambiente della chiesa. A 8 anni volevo diventare missionario»

Al Corriere della Sera: «Amadeus aveva sempre le occhiaie. Pensai facesse vita notturna, poi scoprii che si svegliava alle 4 di mattina per venire a Verona da Milano perché non sapeva dove dormire»

Cecchetto: «Mi ha costruito l’ambiente della chiesa. A 8 anni volevo diventare missionario»

Sul Corriere della Sera una lunga intervista a Claudio Cecchetto. Parla della sua infanzia a Milano, dove la famiglia si trasferì perché il padre, figlio di famiglia contadina, non voleva lavorare la terra.

«Ne ho conosciuto soprattutto gli oratori: gli unici posti dove potessi divertirmi. L’ambiente della chiesa mi ha costruito. C’è stato un momento, a sette o otto anni, in cui chiesi come diventare missionario. E ho fatto il capo dei chierichetti, saggiando le invidie nel mondo del lavoro: eravamo tre e, come fui nominato, gli altri due se ne andarono. Chiesi al prete che succedeva. E lui: niente, i prossimi che arrivano sapranno subito che il capo sei tu».

Gli esordi nelle radio, poi la carriera da deejay.

«Il commesso di un negozio di dischi mi passò il suo lavoro alla discoteca Pink Elephant. Mi sembrò un miracolo, anche se mettevo la musica che piaceva a me solo la domenica pomeriggio e la sera dovevo andare di Fred Bongusto e Peppino di Capri».

Pur di riuscire a comprare i dischi si dedicò a ogni genere di lavoro.

«Lavoretti: ho scaricato casse d’acqua, fatto il vetrinista. All’università, a Scienze delle preparazioni alimentari, pure scelta col fiuto da talent scout, dicevo ai prof: non diventerò mai alimentarista, a me piace la musica, ma se non studio, mio padre mi manda a lavorare. Poi, nacquero le radio libere e mollai gli studi».

Il padre non gli parlò per anni, racconta, fu costretto ad andar via di casa.

«Lui e mamma non sono venuti nemmeno al mio primo matrimonio. Mio padre mi ha chiamato solo al secondo Sanremo. Dopo, ci siamo voluti più bene di prima. Oggi siamo rimasti solo io e mia sorella, che è psicologa. Io le dico: facciamo lo stesso lavoro, tu pensi a quelli che stanno male, poi, quando stanno bene, io penso a farli divertire».

Confessa di essere stato anche lui da uno psicologo.

«Quando uscii di casa, nel ’75. La mia fidanzata mi tradì col mio migliore amico, io mi trovai solo e senza un tetto e pensavo: che cavolo ci sto a fare a questo mondo? Feci dieci sedute, mi sentii guarito e scomparvi senza pagare. Anni dopo, andai a cercare lo psicologo per ringraziarlo e saldare, ma non mi ricordavo più il nome, andai nella sua strada e non trovai il portone. So che scriveva sul Corriere della Sera, curava con l’ipnosi. Vorrei ritrovarlo: mi salvò dal vuoto senza chiedermi mai una lira».

In cosa consiste il segreto del talent scout?, gli chiedono. Risponde:

«Sono dell’idea che una cosa è bella quando è fatta bene. Se un altro la sa fare meglio di te, devi aiutare lui a farla. Lo capii suonando la batteria coi Jokers, da ragazzo. Scoprii che, in mia assenza, la facevano suonare a un altro. Loro erano imbarazzati, a me venne di congratularmi con l’altro».

Cecchetto racconta quando conobbe Amadeus.

«Venne a presentarsi. Mi piacque la sua voce, gli chiesi se sapeva dove dormire a Milano e mi rispose che aveva un amico. Lo battezzai Amadeus e lo mandai in radio. Aveva sempre le occhiaie. Pensai che facesse vita notturna, invece, scoprii che si svegliava alle 4 tutte le mattine per venire da Verona a Milano e che l’amico che lo ospitava non esisteva».

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