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Al Napoli vogliono la frusta, all’Inter la libertà: comandano sempre i calciatori

Da Ancelotti a Conte: due modi opposti per rompere. All’Inter si lamentano dei metodi troppo duri. Con una narrazione primitiva, come se il calcio non fosse un lavoro

Al Napoli vogliono la frusta, all’Inter la libertà: comandano sempre i calciatori
(foto Hermann)

Purtroppo Luciano De Crescenzo non c’è più. Avrebbe avuto senz’altro qualcosa da dire, lui che coniò la frase “Napoli città d’amore, Milano luogo di libertà”. Ovviamente è un luogo comune. A Napoli se ne sono fatti uno scudo. Parlando di calcio, però, la seconda parte della frase è stata indovinata, almeno a leggere le cronache provenienti dal mondo Inter. Mentre a Napoli più che città d’amore, dovremmo dire città di frusta.

A Milano, sponda Inter, sta avvenendo qualcosa di simile a quel che è accaduto pochi mesi fa a Napoli. Stavolta sulla graticola c’è Antonio Conte i cui metodi di allenamento sarebbero stati giudicati troppo duri dai calciatori, soprattutto per il post-lockdown. Duri e obsoleti, aggiunge qualcuno. Oggi ne ha scritto La Stampa.

L’intensità atletica è una delle caratteristiche principali del metodo Conte. Di fronte a questo strano campionato, che non conosce sosta, non tutti sono convinti che il martellamento sia produttivo. Alcuni giocatori della rosa nerazzurra ritengono che gli allenamenti condotti alla Pinetina, dalla ripresa dell’attività, siano stati troppo duri in rapporto alle tempistiche della competizione da affrontare. Un’osservazione basata sulla loro attuale condizione non ottimale.

Conte sarebbe quindi l’allenatore ideale per Napoli, oltre a Gattuso che ha scelto la piazza sbagliata per provare a a liberarsi – sempre che lo voglia realmente – dell’etichetta di tecnico tutto pane sudore e ringhio. A Napoli Ancelotti, e prima di lui Benitez (come a Roma Fonseca e Luis Enrique), sono stati accompagnati dalla nomea di avere metodi di allenamento blandi. Ovviamente non è così: se solo sapessero che i metodi di allenamento di Ancelotti sono in qualche modo assimilabili a quelli del fisiologo danese Bangsbo consulente dell’Atalanta e che qualcuno del tutto ignorante di preparazione osa avvicinare al doping. Una bestemmia. Basterebbe, come ha scritto Piccirillo sul Napolista, notare che l’Atalanta è nona nella classifica dei chilometri percorsi. Correre meglio, saper come correre, non vuol dire correre di più. Bangsbo è stato un rivoluzionario nel calcio, è il primo che ha introdotto gli allenamenti col pallone. E per questo nella Juventus di Moggi – e allora anche di Ancelotti – veniva guardato con diffidenza. Altro che doping.

Il punto è che il calcio in Italia ha una narrazione che potremmo definire primitiva, da scuole medie: il calciatore è considerato una sorta di sub-umano che va spremuto e che fondamentalmente capisce solo le mazzate. Un po’ come gli animali. Va detto, a difesa dei propugnatori di questa narrazione, che Insigne con la sua intervista al Corriere della Sera ha detto proprio questo, che lui chiedevano ad Ancelotti di essere più duro, di metterli sotto pressione. Il calciatore sembra seguire un codice binario: o bianco o nero. E quando le cose non gli vanno bene, mette calcisticamente il muso finché mamma e papà (la società) non eliminano il problema.

Forse bisognerebbe anche cominciare a pensare al calcio come a un lavoro. È chiaro che nella carriera di un calciatore ci siano gli allenatori prediletti e quelli con cui si è legato di meno. Proprio come accade in qualsiasi tipo di occupazione. In una delle innumerevoli interviste rilasciate per i suoi 70 anni, Adriano Panatta a Tuttosport ha parlato di Barazzutti. Il tennis è sì uno sport individuale ma c’era anche la Coppa Davis, ci si allenava insieme.

Che vuoi che ti dica, siamo opposti per carattere e visione della vita, e gli anni hanno finito per depositare nuove scorie sul nostro rapporto. Non è stato mai l’amico del cuore, ma ci conosciamo fin troppo bene, eravamo parte di una squadra che si faceva rispettare. Una grande squadra. Non sono cose che si dimenticano.

“Eravamo parte di una squadra che si faceva rispettare”. Il punto è questo. È impensabile che in una squadra si vada tutti d’amore e d’accordo. Ci si vede mediamente tre ore al giorno, poi ciascuno fa quel che vuole. È piena la storia del calcio di squadre vincenti decisamente lontane dall’idea di spogliatoio unito. Certamente la scena dell’altra sera a Verona ha colpito. Cooling break: l’Inter era sotto 1-0 e l’allenatore non ha detto una parola si suoi calciatori. Come a dire, tanto è inutile; oppure “sapete benissimo cosa fare, fatelo”. Siamo all’incomunicabilità di Antonioni.

Anche a Barcellona sta avvenendo qualcosa di simile (per fortuna del Napoli), con Messi che non ha minimamente reagito alle parole del vice di Setien, anzi gli ha mostrato le spalle mentre parlava. Capitò anche a Lippi alla Juventus. È un destino che prima o poi tocca tutti. Il paradosso è che in un calcio in cui gli allenatori sono sempre più considerati protagonisti, in realtà è cambiato ben poco: a decidere sono i calciatori. Se si crea l’alchimia, bene. Altrimenti paga chi è da solo.

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