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Chiorri e il calcio anni 80: «I difensori limavano i tacchetti. Ad Avellino spegnevano la luce e picchiavano»

Splendida intervista di Dotto sul Corsport al talentuoso attaccante oggi 61enne. Il no alla Nazionale, la depressione, Cuba. «Sono stato me stesso»

Chiorri e il calcio anni 80: «I difensori limavano i tacchetti. Ad Avellino spegnevano la luce e picchiavano»

Giancarlo Dotto, sul Corriere dello Sport, scrive di una bellissima chiacchierata con Alviero Chiorri attaccante talentuoso fine anni Settanta e anni Ottanta, Sampdoria e Cremonese. Un personaggio per chi ama quel calcio. Dotto lo incontra grazie a un mister X – invero facilmente riconoscibile – e viene fuori uno splendido ritratto. Un calciatore che un bel giorno, dopo essere caduto nel buco nero della depressione, decide di lasciare tutto e andare a Cuba. Romano e romanista.

Qui di seguito, qualcuno degli aneddoti raccontati da Chiorri.

«Giocavo nei campi di seria A come giocavo da ragazzo in spiaggia con gli amici»

«Se avessi avuto la testa di Totti e Del Piero, non sarei stato Alviero Chiorri. Per il resto sono un ragazzo normale, anche se so che me la porterò addosso tutta la vita questa nomea di tipo strano. Penso a quello che combinava Balotelli a diciotto anni. Le mie stranezze, al confronto, sono poca roba». Romano di Valle Aurelia, tifoso romanista, «era la Roma di Ciccio Cordova, Amarildo e Del Sol. Andavo in curva sud con mio zio».

«Mi dà fastidio quando mi dicono che avrei potuto fare molto di più. Sarà anche vero, ma alla fine ho fatto quello che dovevo. Avessi avuto un procuratore come quelli di oggi, uno come Mino Raiola, forse sarebbe stata una storia diversa. Non ero Maradona e nel calcio di oggi non sarei nemmeno preso in considerazione. O forse sì, sarei stato un buon esterno sinistro alla Totti nel calcio di Zeman. Un allenatore appassionante anche se un po’ estremo. Una volta gli feci gol da metà campo».

«Le occasioni le ho avute, ma è sempre successo qualcosa. La prima volta fu colpa mia. Fui convocato per i mondiali in Tunisia con la Nazionale Juniores. Una squadra forte, avevamo appena vinto il torneo di Montecarlo. Mi rifiutai di andare perché avevo già prenotato al mare con gli amici. C’era Italo Allodi. Mi cacciò da Coverciano con i carabinieri. L’ho sicuramente pagata. Da allora m’hanno segato dal giro azzurro e quando fui in ballo per la Nazionale di Bearzot mi fermò la pubalgia».

Con la Sampdoria esordii in Coppa Italia contro la Fiorentina. Ero un ragazzino incosciente, mi marcava Roggi ma non mi prendeva mai, quel giorno mi riusciva di tutto. Mi si avvicinò Antognoni: “Ragazzino, ora basta, falla finita, hai rotto i cojoni”.

I derby.

La mia bestia nera era Fabrizio Gorin, il biondo, un mastino, non a caso non ho mai segnato nei derby. Oltre a menare come un fabbro, limava i tacchetti. Era un’usanza di quegli anni. Dentro i tacchetti di legno c’erano quattro chiodi martellati che, a furia di limarli, spuntavano fuori. Quando prendevi una scarpata, il sangue si sprecava, la carne rimaneva attaccata al tacchetto.

M’hanno gonfiato come una zampogna. Entrate da dietro, gomitate, botte, minacce. Ad Avellino, quello di Sibilia nel sottopassaggio spegnevano la luce e ti menavano proprio. A Carletto Mazzone gli hanno spento una sigaretta in faccia. All’epoca era permesso tutto, ogni domenica era una battaglia. Le ho prese, ma non ho mai reagito. Avevo imparato che funzionava così.

Il più cattivo? Pasquale Bruno. Io a Cremona, lui al Toro. Fischio d’inizio, palla altrove, lui mi aspetta col ginocchio alzato e mi dà una stecca micidiale. Hai presente il Tardelli di quel Juventus-Milan? Uscii con un ematoma gigante.

A Cremona Luzzara era pronto a farmi un contratto di tre anni. Era il 90. Qualcosa scatta nella mia testa. Il buio totale. Avevo trent’anni e pensai di chiudere con il calcio. L’apatia totale, il rigetto di tutto, a cominciare dal calcio. Non mi allenavo, non mangiavo, da 77 chili ero sceso a 66. Facevo pensieri strani, vedevo mostri. Sono stato ricoverato in clinica due mesi. Mi hanno riempito di pasticche, sono arrivato a pesare 90 chili.

Poi tornò, ma non fu più la stessa cosa.

Un giorno salta il tappo e vai a fondo. Forse il peso dell’aver sopportato tanti anni un mondo che non era il mio. Le invidie, le pressioni, il confronto con gli altri. Non mi divertivo più. Non ritrovavo più me stesso. Anche quando mi facevano i cori e venivo osannato, mi chiedevo sempre: perché?

Dice che Baggio e Giordano erano dei mostri e che il più forte di tutti era Giuseppe Montesano. Un altro forte era Macina. A quei tempi, ricorda, tecnicamente i calciatori erano nettamente più forti di oggi.

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