Sul CorSport l’ex giallorosso parla della malattia: «La cosa brutta del tumore è che quando arriva non ti lascia più. Falcao? Non esiste che non tiri il rigore in finale»
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Il Corriere dello Sport intervista Sebino Nela, vecchia icona della Roma. Una lunghissima e sentita intervista di Giancarlo Dotto, con decine di temi alcuni anche molto dolorosi.
Nela racconta la sua malattia, il cancro. E’ alla vigilia della quarta operazione.
«Ho il retto addominale aperto, le viscere spingono, mi esce sempre questo bozzo non bellissimo da vedere. Devo fare pulizia di un po’ di schifezza e mettere una rete di protezione. Dopo di che, continuerò i miei controlli ogni sei mesi».
L’umore è altalenante, spiega, soprattutto quando sente di altri colleghi malati, come Vialli e Mihajlovic
«Mi ha turbato molto saperlo. A Sinisa mando messaggi attraverso il nostro amico comune Vincenzo Cantatore. Con Gianluca eravamo in camera insieme al mondiale di Messico ’86. L’ho incontrato poche settimane fa, a Roma-Juventus. Ci siamo abbracciati. “Guarda che non si molla un cazzo”, gli ho detto. “Nemmeno di un millimetro”.
E Nela non ha mollato.
«Due anni e mezzo di chemio non sono uno scherzo. Ti guarisce una cosa e te ne peggiora un’altra. Ho avuto degli attacchi ischemici. Ma la pressione è a posto, prendo tre pasticche al giorno e faccio la mia vita normalissima».
Il tumore, racconta, è una brutta bestia.
«La cosa brutta di questo male è che gioisci, dici ho vinto, e poi scopri che a distanza di sei, sette, otto anni ritorna. Il cancro quando arriva non ti lascia più. Torna come realtà o come minaccia. Sta sempre lì».
Nela racconta anche il suo rapporto turbolento con Paulo Roberto Falcao.
«Non mi sta antipatico. Lui a Roma faceva vita a sé. Noi, io, Pruzzo, Ramon Turone, Chierico, stavamo magari da “Pierluigi”, il ristorante, a giocare a tressette fino alle quattro di mattina, lui se ne stava a casa, non usciva mai. Per me far parte di un gruppo significa spirito di appartenenza. Lui aveva la sua vita, lo vedevamo solo in allenamento e alla partita».
Liedholm gli permetteva tutto, dichiara.
«Decideva lui come e quando allenarsi. La domenica, prima della partita, noi tutti insieme per il pranzo delle 11, lui da solo a mangiare in camera».
Un elemento di divisione è anche il rigore non tirato nella in finale di Coppa Campioni. Falcao decise di non tirarlo perché stava male, sostenne che l’effetto delle infiltrazioni fosse finito.
«Non esiste che tu non tiri il rigore in una finale di Coppa Campioni davanti ai tuoi tifosi. Tu, Falcao, devi essere l’esempio. Potevi stare pure zoppo, ma lo tiri, non me ne frega un cazzo. E lui zoppo non era. Ha sbagliato, mi dispiace. Lo devi tirare non per evitare il casino, ma perché sei il giocatore più importante di questa squadra. Lo sbagli? Fa nulla. Saresti comunque rimasto l’ottavo re di Roma»
Nela confessa che visse quell’episodio come una diserzione.
«Come se in guerra, alla battaglia finale, chi ti comanda scappa, diserta. Non te lo aspetti. Da quella sera ho dubitato di lui».
E non fu nemmeno l’unico a prenderla male, solo l’unico a dirlo apertamente.
«Non sono stato l’unico, ma sono l’unico a dirlo, così, a cuore aperto. Degli altri non me ne può fregare di meno. Se un giorno viene Paulo a Roma e c’invita tutti, probabile riceva un no da me. Io sono fatto così e non dico che sono fatto bene».
Nela parla anche del suicidio. A proposito di Agostino Di Bartolomei.
«Lo stimavo immensamente. Un capitano vero. Come devono essere i capitani. Era malato dentro, nell’anima. Ci ho pensato anch’io, spesso, negli anni duri della malattia, ma non ho mai trovato il coraggio».