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Garrone ci riporta al vero Collodi che attraverso Pinocchio raccontò i vizi dell’Italia

Comencini è bello che dimenticato, non c’entra niente, addio al pedagogo di bambini da libro Cuore. Garrone è bravo anche a non far comprendere la produzione kolossal

Garrone ci riporta al vero Collodi che attraverso Pinocchio raccontò i vizi dell’Italia

“Il senso di Garrone per il fantastico”, questo potrebbe essere l’assunto per dare una cifra al Pinocchio di Garrone, il nostro cineasta più vario e molteplice. Dal soggetto di Collodi attraverso la sceneggiatura che vede partecipe anche Massimo Ceccherini si snoda davanti agli occhi degli spettatori un Pinocchio (Federico Ielapi) ingenuo ed empatico figlio del desiderio paternale di Mastro Geppetto (Roberto Benigni), falegname in bolletta che cerca il suo capolavoro nella costruzione di un figlio che possa “stare buono”. Il burattino disubbidisce e deve passare attraverso le mille peripezie per diventare un bambino vero, mentre la Fata Turchina (Marine Vacht) lo osserva e perdona.

Finire come burattino nelle mani del burbero, ma amorevole, Mangiafuoco (uno straordinario Gigi Proietti); attraversare le lusinghe del denaro facile con “gli amici di facebook” il gatto (Rocco Papaleo) e la volpe (Massimo Ceccherini) ed il loro Campo dei Miracoli che assomiglia un po’ alla Finanziarie della fine degli anni ’80. Fare esperienza della Giustizia italiana che condanna i poveri Cristi e salva i mariuoli. Credere di potere vivere nel Paese dei Balocchi e rimanere ciuco con l’esuberante bambino Lucignolo (Alessio Di Domenicantonio). Finire nel circo con il domatore (Massimiliano Gallo) e fare l’esperienza dell’esodo nella cavita del pescecane dove ritrova il “suo babbino”.

Dopo un’ora di visione Comencini è dimenticato perché non è quella l’unita di misura con cui competere: Garrone come suo solito rifugge da citazioni e copia e incolla e riporta forse il vero Collodi sullo schermo: non il pedagogo di bambini da libro Cuore, ma quello scrittore politico che attraverso il bambino-popolo in formazione ci restituì i nostri antichi vizi patrî che ancora oggi costituiscono il nostro debito pubblico più incrostato. Che dire poi dell’immensa macchina da kolossal che costituisce il sostrato della produzione? Nel film questa maestosità non si coglie perché Garrone fa filare in maniera naturale le cifre del fantastico. Merito di una fotografia da Oscar (quella del David Di Donatello Nicolaj Brüel), delle scenografie perfette di Dimitri Capuani, dei costumi precisi di Massimo Cantini Parrini, dei trucchi di Mark Coulier. E chiaramente di uno stuolo di attori del nostro grande cinema italiano: l’oste (Gigio Morra), la lumaca (Maria Pia Timo), Mastro Ciliegia (Paolo Graziosi), il Grillo parlante (Davide Marotta), la Civetta (Gianfranco Gallo), il Direttore del Circo (Massimiliano Gallo, che impersona anche il Corvo), il Maestro (Enzo Vetrano), l’Omino di burro (Nino Scardina), il Tonno (Maurizio Lombardi), Giangio (Domenico Centamore). Citazioni anche per la Fata Turchina bambina (Alida Baldari Calabria) e per il banditore di Mangiafuoco (Ciro Petrone). Qualche premio importante in vista?

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