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Sarri la sua rivoluzione l’ha compiuta, ha preso il potere (e dovremmo anche gioirne)

Che vada o meno alla Juventus, è sfuggito definitivamente ad una condizione di subalternità in cui la vita lo aveva cacciato fino ai 60 anni. Il tradimento non è un tema centrale

Sarri la sua rivoluzione l’ha compiuta, ha preso il potere (e dovremmo anche gioirne)
Sarri / Carlo Hermann

Che cosa sono le rivoluzioni

Ho letto in questi giorni tutti i pezzi, di notevole fattura, a cui il Napolista ha dato spazio sulla questione Sarri alla Juventus.

Anzi, per dirla come da sentire comune, sulla presunta questione della rivoluzione sarrista mancata.

Mi permetto, dopo giorni e giorni di approfondita riflessione su un argomento anche a me molto caro, di avanzare una piccola perplessità sul comune approccio alla questione, che rischia di cadere in un equivoco di fondo tale da non consentire, a mio modesto parere, una lettura effettiva ed omnicomprensiva di tutta la vicenda che ci riguarda.

Il punto di partenza di ogni analisi, per evitare approcci arbitrari o di forte impostazione personalistica (nel senso di deriva caratteriale della stessa analisi, quest’ultima da valutarsi come quella critica che risente della personalistica simpatia od antipatia che tanto il soggetto, quanto il contesto ispirano nella mente del critico) non può che avere ad oggetto gli elementi distintivi che caratterizzano ogni categoria di pensiero applicata.

Se così è, come è, il punto di partenza per analizzare una rivoluzione umana è innanzitutto quello afferente agli obiettivi che essa ha.

Ebbene, obiettivo di ogni rivoluzione, quale evento, ovvero fattore comportamentale che punta al cambiamento di una data condizione personale,  è quello di prendersi il potere.

Tecnicamente, il primario obiettivo di  ogni rivoluzione è solo ed esclusivamente questo: acquisire, con qualsiasi mezzo possibile (spesso anche di carattere violento) il potere, ed anzi quel determinato potere che si vuole esercitare e che non si ha.

Perché a questo, poi, si unisce il – consequenziale – secondo obiettivo: lo scopo in favore del quale esercitare il potere acquisito.

Scopo che può essere tra i più disparati e che può qualificare una rivoluzione come politica, umana, di destra, di sinistra, e così via.

Questo è il rapporto che identifica una rivoluzione: il combinato disposto del primo obiettivo (presa del potere) con il secondo obiettivo (in funzione di cosa ?).

Non deve, quindi, ingannare che storicamente si siano analizzate ed offerte al lettore interessato quasi esclusivamente fenomeni umani (e cioè accadimenti a cui si arriva per il tramite di comportamenti dell’uomo) che hanno portato a rivoluzioni politiche o collettive, perché non è il politico (quale gestione della cosa pubblica) o l’insieme delle persone che agiscono (o nell’interesse del quale si agisce) a fare la differenza o a poter qualificare un determinato cambiamento come rivoluzionario, ma il semplice stravolgimento di una data condizione di partenza attraverso la presa del potere che prima non si aveva e che si vuole acquisire, appunto per modificarla.

Ed allora, se così è, come è, cari miei la rivoluzione di Sarri non solo c’è stata, ma è riuscita con i cazzi.

Col proprio lavoro

C’è stata perché l’uomo, a cui nessuno ha regalato nulla, ha con il proprio lavoro conquistato proprio quel potere (o quel palazzo del potere) attraverso cui modificare la sua condizione di partenza quale era quella di allenatore a cui fino a 4 anni fa, nonostante il grande talento e le grandi competenze nessuno avrebbe affidato una squadra di un certo livello (perché le competenze sono sempre quelle che c’erano prima della presa del potere, nel senso che il potere non da competenze, semmai è preso grazie alle competenze: se fosse il contrario e bastasse il potere, oggi saremmo governati da una massa di geni…).

E c’è stata perché l’uomo ha usato le armi che aveva per prendersi il potere che gli serviva (prima ancora che a vincere) per allenare al fine di vincere, e cioè per competere in quelli che sono i contesti in cui egli crede di potere e dovere stare (e qui si ritorna a bomba sull’esigenza di rivoluzionare la propria condizione di base, che tali contesti non prevedeva)

Se, quindi, davvero fossimo dei fini analisti, ci renderemmo conto che quella di Sarri, se andrà alla Juventus (ma secondo me anche in caso contrario) è stata davvero una vera, propria e compiuta rivoluzione, nel senso di cui sopra.

Ma dirò di più: se fossimo davvero sarristi o quanto meno davvero inclini ad analisi critiche attente alle posizioni e condizioni del debole contro il forte, se davvero volessimo abitare in un paese di meriti individuali prima ancora che di classe (in cui pure credo, ma non è questa la sede per approfondirne le sfaccettature), allora non potremmo che esserne contenti.

Non potremmo che essere contenti del fatto che un piccolo uomo, figlio di proletari, ai più sconosciuti, destinato a competere in gironi da terza serie perché non destinatario di occasioni importanti, grazie esclusivamente alle sue competenze il potere se l’è preso, sfuggendo definitivamente ad una condizione di subalternità in cui la vita lo aveva cacciato fino ai 60 anni.

Capisco che in tutto questo ci si possa sentire traditi, sentendosi anzi strumento di un obiettivo individuale che forse sin dal principio aveva in mente di usare Napoli come un passaggio per la presa del potere.

Però se da un lato questo dovrebbe al massimo far riflettere sul perché oggi ed attualmente Napoli non sia centro di potere o non possa essere identificato con il potere (e qui si aprirebbe una parentesi degna di miglior e maggiore analisi, che prima o poi si dovrebbe declinare), dall’altro, piaccia o no, non serve a poter dimostrare che la rivoluzione sarrista non c’è stata (perché c’è stata eccome, anche se senza noi napoletani), e dall’altro ancora non dovrebbe essere così dannatamente egoista dal non riflettere, con un pizzico di soddisfazione, sul fatto che un uomo che molti condannavano alla subalternità, invece il potere se l’è preso.

E scusate se è poco.

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