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Conte alla Gazzetta: “Non sono un allenatore gestore. Io voglio vincere”

“L’obiettivo del mio lavoro è la vittoria. Il percorso per arrivarci è fatto di lavoro, sacrificio, unità d’intenti, di pensare con il noi e non con l’io. La Roma? Ora no, ma in futuro la allenerò”.

Sulla Gazzetta una lunga intervista ad Antonio Conte firmata da Walter Veltroni. Dall’amore per il calcio inculcatogli dal padre, noleggiatore di automobili e autista di pulmini scolastici, ma soprattutto ex presidente della Iuventina Lecce, che lo ha cresciuto “a pane e pallone” al ricordo della mamma sarta che si arrabbiava quando lui le sporcava gli abiti da sposa con il pallone di cuoio.

E , naturalmente, il racconto di una carriera straordinaria, dalla gavetta nella Juventina, con un provino a 12 anni, e con il patto stretto con il padre di non trascurare mai gli studi.

“Da lì in poi ho sempre abbinato campi di calcio e libri di studio, anche per dare soddisfazione della mia famiglia. Ho faticato, mai rimandato e mai bocciato, ma alla fine mi sono laureato in Scienze motorie con 110 e lode a Foggia. È stato un percorso parallelo che ho voluto sempre continuare”.

I primi soldi guadagnati con la Primavera del Lecce, l’arrivo a Torino, alla Juventus, nel novembre del 1991.

“Il primo anno alla Juve fu difficile per il clima, per tutto. Io davo del lei a tutti i giocatori, non riuscivo a dar loro del tu: per me erano idoli visti nelle figurine. Ritrovarmi accanto a Baggio, Schillaci, Julio Cesar mi sembrava un sogno. Al presidente davo anche del voi, perché da noi, al sud, il voi è superiore al lei”.

Conte racconta poi l’esperienza da allenatore e di essersi offerto lui ad Andrea Agnelli, unica iniziativa del genere in vita sua. La Juventus, all’epoca, era settima in classifica. Lo conquistò parlando dell’importanza del senso di appartenenza dei calciatori. Racconta che disse ad Agnelli:

“Bisogna riportare determinati valori. Il primo, per me, è il senso di appartenenza. Il giocatore non si deve mai sentire di passaggio, deve pensare di poter scrivere la storia della sua squadra”.

Alla Juve compì una specie di rivoluzione, mandando via tanti giocatori che l’appartenenza non la sentivano e facendone arrivare altri come Pirlo, Vidal, Lichtsteiner, Vucinic e Giaccherini, scelti per la motivazione, oltre che per la qualità.

Conte spiega che un allenatore deve “essere duttile, mai ideologico”.

Veltroni gli chiede come mai, secondo lui, la Juventus di Allegri non riesca a vincere la Champions e lui chiarisce che il suo ciclo fu molto diverso dall’attuale. La Juventus, al momento del suo arrivo, non era una protagonista, era addirittura scomparsa dalla Champions, ecco perché riuscì a raggiungere quei risultati. Altra cosa quando si prende una società in vetta, come è accaduto ad Allegri. E poi c’è la differenza fondamentale che passa tra un campionato e la Champions:

“Il campionato di solito lo vince la squadra più continua. La Champions spesso è decisa da partite alle quali arrivi nel momento giusto o nel momento sbagliato. Un infortunio in più, in meno, palo-rete, palo-fuori. Detto questo può esserci sempre la sorpresa nel percorso. Come l’Ajax”.

Conte parla anche del motivo per cui lasciò la Juve: non era riuscito a mantenere la promessa fatta ad Agnelli di riportare la squadra sul tetto del mondo. Sarebbe possibile un ritorno? Gli chiede Veltroni. Occorrerebbe la volontà da entrambe le parti, risponde Conte, e la società è contenta del lavoro di Allegri. Aggiunge anche, però, che “un domani non si sa mai”.

Ma cosa cerca Conte in una nuova società? Che tipo di proposte?

“Oggi se qualcuno mi chiama sa che io devo incidere, con la mia idea di calcio e con il mio metodo. Non sono un gestore, non credo che l’obiettivo di un allenatore sia fare meno danni possibile. Se pensano questo, le società non mi chiamino. Trovo umiliante per la categoria sentire una cosa del genere. Io voglio incidere, perché sono molto severo con me stesso. Poi ho un problema: la vittoria. Che sento come l’obiettivo del mio lavoro. Il percorso per arrivarci è fatto di lavoro, di sacrificio, di unità d’intenti, di pensare con il noi e non con l’io. Non ne conosco altri”.

Esclude che ci siano, oggi, le condizioni per andare ad allenare la Roma, ma è sicuro che un giorno, prima o poi, sarà l’allenatore della squadra.

Infine, Veltroni gli chiede quale sia la squadra e il calciatore che ha più amato nella sua vita fin qui.

Conte non ha dubbi: Tardelli con il suo urlo, e la Nazionale dell’82.

“Ci fece innamorare, andò oltre i propri limiti contro l’Argentina, il Brasile. Fece capire, anche a me che ero un ragazzino che la guardava in tv, che niente è impossibile. Se hai idee, credi nel tuo lavoro e ci metti tutto te stesso”

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